I’ll be your mirror,
reflecting what you are
“I’ll be your mirror”
the Velvet Underground
Il male è tanto vicino da non poterlo neppure distinguere.
Neppure specchiandoci.
Nessuno di noi vorrebbe somigliare ai propri terrificanti vicini di casa, né sarebbe disposto a identificarsi con l’ansiosa aridità del piccolo possidente che vede solo il fruttare della propria rendita, convinto di poter ignorare tutto il resto.
Nessuno vorrebbe essere qualcosa di diverso da ciò che crede di essere.
Perché ignoriamo il fatto che noi siamo gli altri, per gli altri.
Tendiamo a raccontarci un’immagine di noi stessi così nobile, corretta, volta a giustizia e bontà, da non saper vedere come stanno oggettivamente le cose.
Sono gli altri a essere brutti, malati, cattivi, invadenti, aggressivi, scorretti, folli, peccatori. Vigliacchi.
Sono gli altri ad avere usanze barbare tanto da credere in un dio fasullo, mentre il nostro è il vero dio, il migliore, buono, giusto, amorevole.
Al punto che se fosse necessario, per la nostra idea di bene e di dio saremmo persino disposti, se non proprio a commetterle, comunque a tollerare atrocità ai danni dei cattivi che stanno al di fuori del nostro ordine.
Ma, a partire dall’immagine del nostro vicinato e proseguendo su quella di chi riteniamo interessato solo al profitto, e con uno sguardo poi verso lontane culture sconosciute e solo per questo sinistre e rozze, e ancora più lontano, in un lontano profondo, fino all’immersione all’interno del pensiero di chiunque, dove alberga il nostro personale concetto di bene, questa è la vecchia, miseranda storia dell’umanità. Perpetuatasi nei secoli. Sostenuta da tutti i “noi” che prima di noi si sono succeduti sulla faccia del pianeta da quando abbiamo preso il sopravvento sulle altre specie.
Siamo noi il male che vediamo negli altri, noi siamo il vile bombardamento notturno di città sconosciute, siamo i violenti affermatori di oscuri voleri di un dio separatore, la morte per fame e per freddo, siamo, e coloro che permettono l’agonia di creature disperate.
Ma siamo anche le vittime.
L’abbattimento di opere millenarie è commesso indirettamente da noi, inutile rabbrividirne più di quanto ci faccia orrore vedere un’esecuzione sommaria condotta in maniera vile per ritorsione, quando molti di noi nelle migliori città affermano di credere nella pena capitale.
Distruggere le opere del passato o eliminare una persona in nome della legge, tribale o evoluta che sia, sono solo diversi modi di assassinare l’umanità.
E non c’è animale capace dell’una come dell’altra azione.
Per questo noi siamo il peggio che osserviamo con il disprezzo per il peggio.
Ma analizzando le brutture di cui siamo stati e siamo capaci, sarà più facile capire da dove occorre cominciare per aggiustare il mondo.
La bellezza scaturisce solo dalla capacità di comprensione.
Così, salutiamo per sempre le opere distrutte da disperati in vena di protagonismo, salutiamo l’amore per chi muore, ma facciamo qualcosa su di noi perché questo ciclo di miseria possa almeno attenuarsi.
La nostra bellezza e l’integrità sognata e mai avuta davvero guadagnerebbero all’istante posizioni più prossime a noi. Ci lambirebbero come un vento leggero, proveniente da un luogo sconosciuto, ma che sappiamo ancora intuire.
E guardare alla storia, con le sue guerre, i suoi sgozzamenti, le espansioni di qualcuno ai danni di qualcun altro, i deliri pseudo religiosi e tutto il resto, significherebbe un po’ meno assistere a una sorta di coazione a ripetere.

caro gianCarlo, tante riflessioni e tante cose si affacciano alla mente ed al cuore per quanto hai scritto. La ragione si ferma davanti al suo mancato uso, incapace di contrapporsi alle forze che stravolgono l’istinto alla vita e la sopravvivenza che muove il perpetuarsi della vita su questo pianeta. E’ vero che nessun animale è capace di fare quello che riusciamo a fare noi, animali umani. Hai scritto di noi: penso che spesso è proprio il noi ad essere forza e debolezza, a seconda degli ideali e dei sentimenti per cui ci spendiamo. E allora propongo la lettura di questa poesia di Livia Candiani, tratta da “La precisione dell’amore”: Cosa diciamo/quando diciamo me./A cosa ci stringiamo/guancia a guancia contro/il maestoso disincanto/del vuoto,/quale scheggia/ci resta in mano/dopo il grande disgelo/dei nomi e dei calendari./Quale danno/ci sopravvive/alle spalle/e ci misura/quando passiamo anonimi per strada/tra altri danni/che fingiamo ignoti./Cosa pensiamo/quando pensiamo me./Quale medicamento/quale guanciale/per la stanchezza quotidiana/per il trapano precisissimo/nel petto/quando sappiamo che qualcuno/ennesimo/ha lasciato il mondo./Cosa sentiamo/quando sentiamo me./Nome-tana e cuccia/rifugio piccolo che spinge fuori/che spalanca l’aperto/come la tovaglia stesa/sul prato/spalanca spazio/di festa./Cosa/festeggia me/quando passo indenne/un angolo obbligato/spinato/che corrode ogni/nome./Cosa sussulta/quando sussulto/percependo d’essere/una sola e comunissima/briciolitudine.” Me può essere briciola che sfama la formica, noi potremmo essere pane, pane che va in bocca a chiunque, che sfama, che da la vita, la crea e la nutre, per averne ancora di quel pane. Me è un mistero, noi altrettanto, ma la forza dello sguardo alla ricerca della bellezza ci renderrebbe più forti. Credo che si possa cominciare dal condividere con la massima sincerità quello che si è con chi si ama, scoprendo che la sofferenza è il noi e che la differenza la fa la risposta che le diamo. Nella sofferenza finisce che non siamo più noi e nemmeno me, ma scivoliamo in un gigantesco IO. Arrivare a sentire il noi ed il me nella sofferenza riappacifica con l’esistenza nostra e del vicino di casa. Restiamo un mistero, ma un mistero connesso in prima battuta con la Vita e l’istinto che la guida. Non potremo andare contro le regole di sopravvivenza delle specie, per cominciare e la ragione potrebbe dire la sua quando serve. Grazie per lo spunto che mi hai offerto con queste tue riflessioni. Buona serata.