
Perché andare a vedere una mostra che 68 (sessantotto!) tra docenti universitari, direttori di musei, conservatori di collezioni, storici dell’arte, definiscono “supertrash” (testuale!) e concordano con i prof del liceo locale che dichiarano “lo scarso valore scientifico e didattico di eventi come questo, che si rivelano enormi calderoni dove le opere esposte sono legate da un generico filo [e offrono] poco o nulla di nuovo, di veramente utile all’educazione del grande pubblico o allo studioso”, invitando caldamente a evitarla?
Stiamo parlando di Tutankhamon, Caravaggio, Van Gogh – La sera e i notturni dall’Egitto al Novecento aperta all’interno del magnifico capolavoro architettonico simbolo di Vicenza, la Basilica Palladiana, fino al prossimo 2 giugno. Che – detto tra parentesi – è già record di ingressi.
In effetti i nomi “sensibili”, quelli che attirano il pubblico facendo lievitare il numero dei biglietti staccati, ci sono tutti o quasi: chissà perché non ha messo anche Monet, che pure è in mostra… Così, dopo aver centrato il primo posto nella top ten delle mostre 2014 con La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer a Bologna (e il sesto con Verso Monet. Il paesaggio dal 600 al 900 a Verona e Vicenza), il curatore Marco Goldin ci riprova per il 2015 partendo, come al solito, dalla denominazione.
Ma torniamo ai veri motivi per andare a vederla.
Punto uno, inevitabilmente autogratificatorio, per il gusto di dar torto agli accademici di cui sopra, di ammirare le oltre 110 opere e immaginarci a urlare loro “capre! capre!”, come farebbe Sgarbi, che è amico di Goldin e che vorrebbe collaborare con il Re Mida delle mostre, pur essendosi battuto perché non arrivasse a Vicenza la magnifica Pietà di Sebastiano del Piombo, opera-simbolo del Museo Civico di Viterbo, che sarebbe rimasto orbato del suo capolavoro identitario per oltre sei mesi.
In alternativa, punto uno bis. Identicamente autogratificatorio, per la possibilità di criticare e lanciare freccette acuminate proprio contro Goldin, un tipo che di spocchia ha fatto indigestione fin dalla culla e che è abbondantemente detestato dagli accademici e dai critici. Magari seguendo proprio l’inaffidabilità di quel “generico filo” che unisce tutte queste opere in “un enorme calderone” che rende l’arte “solo emozione effimera e spettacolarizzazione”, secondo le accuse dei detrattori.
Soprattutto però, punto tre, la mostra va vista per la qualità assoluta delle opere esposte. Tra esse una serie corposa di capolavori, dal Doppio ritratto di Giorgione alle incisioni da Piranesi e Rembrandt, dal Sentiero di notte in Provenza di Van Gogh ai tre Caravaggio, dal San Francesco di Zubarán a L’omicidio di Cézanne, dai paesaggi di “specialisti” come Corot, Friedrich e Turner ai tramonti di Monet, dalla città notturna di Hopper ai magnifici lavori di contemporanei come Wyeth, López García, Bacon e gli astratti Rothko, Klee, Mondrian. E non sono terminati.
Poi, punto quattro, per la varietà internazionale dei prestiti, a cominciare da quelli del Museum of Fine Arts di Boston (la cui disponibilità ha probabilmente spinto Goldin ha “inventare” la parte iniziale con gli oggetti tombali egizi, tra cui la bella Testa del Re Tutankhamon raffigurato appena adolescente, lui che divenne faraone a nove anni) e continuare con Detroit, Washington, Copenaghen, Otterlo (in Olanda), Rotterdam, per una somma di 30 istituzioni museali, di cui varie ubicate fuori dagli itinerari turistici, come la City Art Gallery di Southampton oppure il Wadsworth Atheneum di Hartford, le gallerie di Minneapolis e Indianapolis, alcune collezioni private.
Punto cinque, proprio per seguire il percorso che Goldin ci propone con il suo stile logorroico e affabulatorio, inventivo e inventato, cervellotico e furbo (non di rado dettato dai prestiti possibili e da valorizzazioni ad personam). Il “suo” percorso passa dal senso della notte eterna e spirituale (l’antico Egitto) al serale nella vita di Cristo (opere del 500/600 e di contemporanei), alle incisioni (Piranesi e Rembrandt, Carceri e soggetti sacri), al paesaggio (dai romantici in poi) e alla psicologia di oggi, con a chiudere una “sala riassuntiva” (sic!) rutilante di capolavori avulsi fra loro, a meno che non si parli di “notti dello spirito, notti della vita e notti della natura” (ri-sic!).
Infine, il fondamentale punto sei: perché questa mostra è una sfida. Una sfida all’intelligenza di chi guarda (e si confronta con le abbondanti schede che la tappezzano). Una sfida alla ricerca del senso e, fatalmente, del non-senso di incroci e accostamenti. Una sfida per l’occhio che trova su una parete il Narciso di Caravaggio e su quella di fronte il muro arancio-marrone del N. 202 di Rothko. Una sfida che certamente “crea desiderio di capire e di affinare la capacità di rispondere alle domande che le opere pongono”.
Punto sette, determinante: per riceverne uno stimolo che costruisce conoscenza e dà identità. Ma solo se, potendo dire “io avrei fatto meglio, avrei trovato una lettura migliore, avrei tolto e riposizionato, avrei cercato altro”, avremo raccolto il guanto in faccia di Goldin per immaginarci sul tema un itinerario diverso, ricco di alternative e formulato su ipotesi differenti.