Stardust, la versione di Bailey

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I Rolling Stones

Stardust
David Bailey
fino al 2 giugno 
PAC Milano

David Bailey, il fotografo londinese al quale si ispirò Michelangelo Antonioni per il film Blow Up (1966), non sembra interessato ad apparire affabile.
In una recente intervista giudica il film sommamente noioso, forse perché il suo personaggio non ne viene fuori molto bene, ma piuttosto – aggiungo io – come un dispotico fotografo un po’ superficiale e qualunquista che si aggira per la Swinging London a bordo di una Rolls decapottabile.
Ma forse è solo per via di quel perfido snobismo tipicamente inglese, che prima crea mode e trend, e poi li schifa con aristocratica nonchalance.
Anche se lui si definisce in tutt’altro modo, ovvero come un figlio del proletariato con problemi di dislessia che ha molto faticato ad essere accettato nel mondo della fotografia e della moda. Sempre che gliene sia mai importato qualcosa.
Infatti, nella mostra Stardust, al PAC di Milano fino al 2 giugno, fotografie di moda non ce ne sono. Fatta eccezione per alcune vecchie carampane (e carampani) del bel mondo “fashion” che ci accolgono all’ingresso, il resto del percorso si snoda attraverso varie tematiche – musica arte, viaggi – che riconducono in un modo o nell’altro al tema esclusivo del ritratto.
I Rolling Stones, Bob Dylan, Andy Warhol, Salvador Dalì, Peter Sellers, i Beatles, Jack Nicholson, Marianne Faithfull, insomma, la Londra e l’America degli anni ‘60, ‘70 e ‘80 del secolo scorso, la Hollywood impegnata, attori, artisti, freaks.
Lo stile è inconfondibile tanto che, a un certo punto, ho la tentazione di chiedermi: “D’accordo, le foto sono molto belle, pulite, grandi. Ma se invece di tutto questo “stardust” le persone ritratte fossero dei signor nessuno?”.
Ma bastano pochi scatti per farmi ricredere. Tre, quattro immagini che si pongono al di sopra del soggetto ritratto. Andy Warhol deformato dal grandangolo, con quell’espressione attonita, stranita, quasi sorpresa. Mia Farrow con l’ovale bianco del viso che galleggia nel nero, pensosa e malinconica. E ancora, l’autoritratto dello stesso Bailey in una posa da Cristo in croce, i Rolling Stones in una foto a colori nella quale avanzano su un prato trafitto da menhir, finalmente normali, privi della maschera da rockstar che ancora oggi indossano, ormai screpolata e logora. Tutta la serie del “The Box Set of Pin Ups”, che vale da sola la visita.
Non c’è dubbio, come tutti gli artisti, Bailey è uno che spesso le imbrocca – e qualche volta no – ma ha la forza di sperimentare continuamente – come per gli ultimi lavori scattati con uno smartphone – e questo fa di lui ciò che è.
Non mi sono piaciuti: le cornici delle foto, a cassetta, marroni, col vetro. I reportage di viaggio, alcuni allestimenti, con le immagini appese a quattro metri d’altezza.

Diplomato al Liceo Artistico di Milano nel 1980, avrei sempre voluto fare l’artista. Ma, visto che si deve anche mangiare, mi sono inventato grafico editoriale e pioniere dei primi sistemi di impaginazione Apple, scoprendo un nuovo amore. Mi è andata bene, ho collaborato con le maggiori case editrici italiane e ora sono un art director sul libero mercato. Però il primo amore non si scorda mai, così sogno ancora di diventare un artista...

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