Alcune volte la vita è davvero stronza e continua a negare ostinatamente ciò che più vorremmo. Anche il libero arbitrio – del quale andiamo tanto orgogliosi – è travolto miseramente da ciò che non dovrebbe esistere, ovvero il fato, il caso, il destino. Chiamatelo un po’ come vi pare.
Capita allora che persone come Vivian Maier, o Sixto Rodriguez, vivano all’ombra delle loro speranze, imprigionati in una vita che, volenti o nolenti, devono adattarsi a sopportare, con uno stoicismo che nessuno oggi accetterebbe più di mettere in conto.
A volte – con perfido umorismo – la stronza paga il suo debito solo dopo la morte. Altre, nemmeno quello.
Tanto per fare qualche nome, si potrebbero citare Vincent van Gogh – che dopo una vita di stenti, non trovò altra soluzione che spararsi – o Franz Kafka, Emily Dickinson, H.P. Lovercraft. Per non parlare di tutti gli altri di cui non sapremo mai nulla.
Vivian Maier (1926-2009) appartiene alla schiera di persone a cui il caso ha voluto rendere giustizia solo dopo la morte. Magra consolazione.
Fatto sta che se nel 2007 un certo John Malof non avesse acquistato all’asta – per 380 dollari – un grosso baule appartenuto a Vivian Maier, probabilmente non solo non avremmo mai saputo della sua esistenza, ma saremmo orfani di un intero mondo descritto meravigliosamente da una sconosciuta bambinaia di Chicago, che ha speso la sua vita fotografando compulsivamente qualunque cosa. Oltre 150mila negativi, alcuni dei quali ancora da sviluppare, una vita passata con la macchina fotografica al collo, senza porsi il problema del perché, o della fine che avrebbero fatto quella montagna di fotografie.
La sua storia, tanto avvincente da sembrare inventata, è raccontata nel documentario Alla ricerca di Vivian Maier, di Charlie Siskel e John Malof in cui si scopre una bambinaia – nata a New York e trasferitasi successivamente a Chicago – quasi senza passato e famiglia, con un occhio incredibile per la composizione dell’inquadratura, la scelta dei soggetti, la capacità di porsi verso il prossimo, spesso diseredati o bambini, che davanti alla sua fotocamera appaiono disinvolti, piangenti, o sorridenti come solo loro riescono a essere.
Poesia pura, ammantata da una vena di malinconia e mistero. Empatia per ciò che sarebbe potuto essere, e che invece è stato troppo tardi.
Ma egoisticamente non posso che essere felice di aver goduto di ciò che solo i più grandi fotografi possono regalare. Una overdose di bianco e nero perfetto, o di quel Kodachrome cantato da Paul Simon in Kodachrome-Maybellene. Una cavalcata senza fiato nell’America più vera lunga trent’anni, come la vetrina che, dalla sua macchina del tempo, vede cambiare anno dopo anno il protagonista del film L’uomo che visse nel futuro (1960). Un cocktail di Weege, Gordon Parks, Bresson, Elliott Erwitt, Doisneau, col potere di ubriacare gli occhi e riempire la mente.
Citazione: “Anziché continuare ad abitare nel cuore e nella mente delle persone, preferirei continuare ad abitare nel mio appartamento”.
Woody Allen, , Bompiani.