
Sempre la critica d’arte ha considerato l’ouvraige de Lombardie – marchio di fabbrica di quanto realizzato nel Ducato di Milano durante i secoli XIV e XV – in sottordine rispetto alle contemporanee esplosioni artistiche di Venezia, Roma, Firenze, Mantova, per restare esclusivamente in Italia. Sempre, fino al 1958.
In quell’anno Roberto Longhi, uno dei maggiori critici che l’Italia abbia mai avuto, scrittore di rara efficacia, conoscitore di raffinata acutezza e moderno curatore di allestimenti espositivi, propose in un Palazzo Reale da poco restaurato dopo i bombardamenti bellici la mostra Arte lombarda dai Visconti agli Sforza. Con l’intento di dimostrare che “era l’affermazione di un’identità, la dimostrazione della grandezza di una tradizione culturale e artistica, finalmente liberata dagli ultimi residui del lungo complesso d’inferiorità che l’ha ostinatamente tenuta in soggezione al confronto di altre regioni d’Italia”.
Fino al prossimo 28 giugno una mostra con l’identico titolo si propone l’ambizioso programma di ampliare il recupero longhiano fino a portare quella “Milano al centro dell’Europa” (così recita il sottotitolo). “Oggi l’arte lombarda della fine del Medioevo e del Rinascimento – affermano i curatori Mauro Natale e Serena Romano – appare come una realtà storica di grande rilievo internazionale, che estende le proprie diramazioni ai maggiori Paesi europei.”
L’aspirazione si traduce in un percorso espositivo imponente, con circa 240 opere che pulsano di continui rimandi a ciò che sta fuori le sale, nel tessuto connettivo artistico cittadino. Si vive appieno il clima culturale di quell’evoluzione, di quell’età dell’oro rimasta nella memoria milanese quale primo momento di compiuta realizzazione di una civiltà di corte dal respiro europeo.
L’itinerario cronologico della mostra illustra la progressione degli eventi e la densità della produzione artistica: dipinti su tavola, disegni, affreschi, vetrate, sculture in marmo, legno, pietra, oggetti di oreficeria, miniature, bronzi, ricami, arazzi… Dalle aperture dei primi Visconti ai maestri “stranieri”, toscani e veneti, fino al culmine del Rinascimento con Bramante e Leonardo, emerge una vitalità espressiva potente, che vive del confronto tra l’esangue eleganza del tardo gotico, l’abbondanza e varietà della lezione fiamminga (molto amata dagli umanisti) e la sobrietà severa e razionale del carattere lombardo (di cui maestro indiscusso fu Vincenzo Foppa). Tutto in un susseguirsi continuo di opere di artisti di rilievo come Giovanni di Balduccio e Giusto de’ Menabuoi, Michelino da Besozzo e Bonifacio Bembo, Pisanello e Gentile da Fabriano, Antonio Amadeo e Bernardino Butinone, il Bergognone e i leonardeschi Giovanni Antonio Boltraffio e Bernardo Zenale. E meraviglie autentiche come i manoscritti Liber Pantheon del 1331 e il Messale – Libro d’ore (1385-1390), le vetrate dalla Chiesa di S. Maria Matris Domini di Bergamo, uniche del Trecento esistenti in Lombardia, opere in marmo provenienti da importanti musei europei e americani…

Ma… C’è un dubbio che ci segue per tutta l’esposizione, importante anche come prologo alla grande mostra leonardesca che presto sarà visitabile nelle sale attigue del palazzo. C’è un pensiero che comunque ci cruccia di fronte a esiti di qualità eccelsa e di straordinari talenti: l’impressione costante che l’arte milanese fosse significativa, elegante, avvincente, ordinata, per certi versi anche drammatica, eppure di retroguardia, di conservazione, di “tradizione”. Fosse, per usare un termine attuale e sgradevole, “provinciale”, rispetto agli autentici poli propulsivi dell’arte europea del tempo.
Dalla statuaria ottusamente medievale di Bonino da Campione e di molte sculture del Duomo alla sostanziale assenza di una partecipata ricerca spirituale (ovvero della lezione giottesca) prima e di sensibilità ai valori coloristici della luce e dell’atmosfera poi, da un miniaturismo trionfante ma che Giovannino de Grassi fatica a far convergere verso le novazioni oltremontane agli sfondi d’oro di Zanetto Bugatto (il definitivamente identificato Maestro della Madonna del Cagnola, polittico riunito in mostra nelle parti rimaste) che a metà Quattrocento sono decisamente old fashion, quasi tutto ci dà un’idea conservativa, resistente, goticheggiante del pensiero artistico dominante nel Ducato fino alla terminale spinta leonardesca (il vinciano arriva a Milano nel 1482).
I Visconti e gli Sforza diedero prosperità economica, artistica e culturale, resero navigabili i canali e imposero un piano urbanistico alla città, incrementarono l’agricoltura e la produzione manifatturiera, istituirono la più efficiente e moderna struttura assistenziale del tempo, la Congregazione di pietà e del Monte di Pietà. Non riuscirono oppure non vollero, per gusto o per casualità di incroci interpersonali, dare la stessa propulsione innovativa e sperimentale all’arte, di cui furono mecenati generosi.
In fondo però anche essere conservatori e un po’ passatisti, ovvero fidarsi delle certezze della tradizione, può identificarsi come un solido valore. O no?