Matisse arabesque. L’oriente e la semplicità

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In un articolo del 1910 il visitatore della Mostra di arte maomettana di Monaco di Baviera elencava commosso la riunione di “arte indiana, assira, persiana, egizia, e quella saracena che fiorì in Sicilia, oltre a quella spagnuola e propriamente moresca” che superava di gran lunga precedenti esposizioni di oggetti orientali a Londra, Vienna e Parigi. Henry Matisse era stato lì: ci era andato alcuni anni dopo il suo viaggio in Algeria.

Oggi  in Matisse arabesque, a cura Ester Coen (Scuderie del Quirinale fino al 21 giugno) in 10 sale e più di cento opere c’è il Matisse dei capolavori (alcuni in prestito da Tate, MoMa, Pompidou, Ermitage) e quello  dei tessuti, degli oggetti, delle cose, degli abiti, delle maschere che restituiscono oltre al “solito” Matisse che contende lo scettro del 900 a Picasso, anche il pittore affascinato dall’Africa e dall’oriente. Matisse, come tanti a quel tempo, era attento alla decorazione, cercava forme primitive e pure, il mudejar, l’arabesco, il blu delle maioliche turche che tornerà spesso nella sua pittura. Ma in Matisse arabesque ci sono anche acqueforti, disegni e i costumi che realizzò per il balletto Le Chant du Rossignol. Tutta per far coincidere “la massima semplicità con la massima pienezza”. Attenzione al Palazzo delle esposizioni alle letture di Incontri con Matisse e ai documentari di  Matisse.doc .

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