scendevi come una vertigine
saltando gli scalini, e mi conducevi
oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti
al di là dello specchio
Arsenij Tarkovskij
Ogni volta che nel villaggio qualcuno se ne andava, si mettevano con maggiore foga nella loro ricerca.
Era come se la vicinanza della fine di qualche anima, fosse loro cara o no, li spingesse un po’ più vicini a un bordo e prossimi a cadervi a loro volta.
Dobbiamo anche dire che se la loro scienza li riempiva così spesso, nelle notti stellate di più, di una fierezza di crociata contro il nulla, in altri istanti si vedeva meglio quanto tale conoscenza fosse cosa minima.
La verità per tutti era che la verità non si riusciva a toccarla.
Questo esponeva chiunque, malgrado tutto, a un’inevitabile caduta in quel niente di cui niente si poteva sapere.
Allora le parole di qualche saggio veterano, di qualche mammana, o di un povero demente risuonavano in tutta la loro potenza. Erano gli istanti in cui il castello di carta della conoscenza veniva sbaragliato da un soffiare lieve di vento.
Uno di loro, potendolo fare, si gettava nell’amore, dimenticando, o cercando di farlo. Si dice che l’amore sia uno dei sistemi più efficaci per esorcizzare la paura, o un altro modo di cantare la vita in parallelo a ogni scomparsa, anestetizzando il più possibile in quel turbine di cielo capovolto che i sensi ci offrono, la pietà per se stessi.
La carne bella, l’umore e la foga d’amore facevano l’effetto di sentirsi quanto più lontani possibile dalla miseria dell’inconoscibile.
Un altro si ficcava in una biblioteca, nel calore astratto della scoperta, per scoprire che ogni cosa detta fosse già stata detta e che ogni tentativo nuovo era simile se non identico a quello già tentato da altri prima di lui.
Un altro ancora immaginava che esistesse un regno dorato nel quale scivolare, e che braccia invisibili in forza di un amore sempre stato, potessero accoglierci, nutrirci di bene, accompagnarci con dolcezza in un sempre finalmente ripulito da ogni brutto presentimento. Quest’ultimo a conti fatti era il più sereno, preferendo pensarla bene, volendo credere a un nuovo corso, dotato di tutte le possibilità, specialmente quelle che ancora non si potevano neppure pensare.
Quando se ne andò il primo, il cielo sembrò terso come sempre, vi garrivano rondini indifferenti, persino allegre.
Alla fine del secondo, cielo, terra e mare ebbero lo stesso sapore e odore. Se ti fermavi sulla spiaggia e ti abbassavi a toccare il pelo dell’acqua passandoti poi le dita in bocca, sentivi lo stesso salmastro bruciarti la lingua e la gola; così i campi, al loro quieto posto, così la preparazione del cielo, che virava verso una nuova tempesta al largo, alla quale avrebbe fatto seguito un’alba rosata. Come sempre.
Quando anche l’ultimo lasciò lo spazio che occupava e lo accompagnarono definitivamente, era mattina presto ma il sole già bruciava, le cicale assordavano scuotendo l’aria e facendo immaginare che le messi si spostassero ora in un senso, ora nell’altro. Il silenzio della campagna regnava come fosse voluto dall’alto, ma era il silenzio di ogni campagna in estate acerba, tiepida, densa e tersa, e uguale a quelle che abbiamo respirato tutti.
Allora ogni cosa nella comunità sembrò animarsi di vita nuova, e molti dotati di vigore scivolarono nell’amore che credevano cosa nuova, durevole e inattaccabile; nuove teste pensanti si affannarono pomeriggi e sere e notti intorno ai problemi acuti che già erano stati dei propri padri pensanti e dei nonni e di tutti quelli che li avevano preceduti; nuovi sognatori finirono per immaginare che oltre questo muro di bellezza possa esistere un regno in cui nulla finisce, specie la bellezza.
E le cose in definitiva proseguirono come sempre.
Si alzò un giorno nuovo e tutto ricominciò da capo.
