Revolution Saints
dei Revolution Saints
(Frontiers Records)
Voto 7
Tutti gli amanti del rock che conta conoscono il nome di Deen Castronovo, virtuoso batterista
che si fece conoscere già alla fine degli anni ’80 con una superband chiamata Bad English, in cui
militavano il supremo vocalist John Waite (Babys) e il supremo maestro della 6 corde Neal Schon (Journey). Ingaggiato nella live band di Vasco Rossi per il tour Nessun pericolo per te (1996), a cui aggiunse una potenza sonora sovrumana, Deen approdò poi nel porto sicuro dei Journey, storica band di San Francisco, che aveva traghettato la melodia vestita di chitarre hard e tastiere pompose dagli anni ’70 agli ’80 di quel genere denominato A.O.R. (adult oriented rock), ancora adesso molto apprezzato soprattutto in Europa del Nord ed estremo oriente. Ma la cosa stupefacente di Castronovo, amato da legioni di fan per la sua bravura a percuotere le pelli, è la voce, assolutamente uguale in parecchi timbri a quella dello storico cantante dei Journey Steve Perry, assente dalle scene musicali da parecchio tempo. C’era bisogno di far venire dalle Filippine Arnel Pineida, clone dello stesso Perry, trovato su Youtube in una tribute band dei melodic rockers di Frisco? Il cantante c’era già, perfetto, dietro i tamburi. Mah! Le strane cose del rock’n’roll! E tra queste strane cose, impensabile per i destini del nostro Paese, c’è che la produzione artistica e gran parte della scrittura dei brani, compresi anche i testi in inglese, è quasi tutta di un tastierista e compositore italiano esperto nei territori dell’A.O.R, Alessandro Del Vecchio.

La seconda traccia, Turn back time (Del Vecchio, Blades), si apre sempre allo stesso modo: riff hard rock di chitarra, fill di batteria e parte il canto. Qui non possono non venire in mente alcuni grandi classici dei Journey, il sound è quello, più chitarristico, ed il solo di Doug è da antologia. La grinta del rock si stempera nella dolcezza ed ecco partire il primo mid-tempo, aperto da un’intro pianistica by Del Vecchio, You’re not alone. La special guest è nientemeno che Arnel Pineida, da qualche anno clone-vocalist dei Journey, ma comunque Deen Castronovo è molto più efficace. Il pezzo è molto FM- friendly anni ‘80 (in America ci sono radio che trasmettono solo questo genere), è piacevole ma molto standard, con liriche che dicono: “Sarò l’unico a sostenerti quando sarai a terra, sarò il tuo rifugio dall’oscurità”! Il guitar solo è molto Whitesnake, ma tant’è (il vostro umile recensore scriveva cose simili negli anni ’80 con la Steve Rogers Band, ma quelli erano altri tempi).
Un arpeggio di acustica che ricorda gli Zeppelin di Babe, i’m gonna leave you e conseguentemente anche Nevermore dei Whitesnake, introduce un gioiello firmato Del Vecchio intitolato Way to the sun: “Ero un uomo disperato finchè non ho sentito la tua chiamata per diventare il meglio che potevo, ho sempre avuto paura di perdere il controllo della mia vita precedente, ma ho pagato il mio tributo. Niente è andato perduto, dimmi qual è il costo”. Una power ballad, suonata alla grande con notevole punch dai tre maestri. E la grande sorpresa come special guest è la presenza di Neal Schon che si produce in un bel solo melodico e nitido, un po’ annebbiato da scale velocissime ma non molto pulite (non a caso ad Aldrich un po’ è dispiaciuto non eseguirlo in prima persona).
Dream on parte e si sviluppa secondo formule già note, grande tiro ed esecuzione impeccabile ma niente di originale. Il piano ricama Don’t walk away, una ballad sentimentale che ha in sé tutto il calore della melodia Italiana, che Castronovo, pervaso dai ricordi delle sue origini, interpreta al meglio. E il richiamo di questa musica partita dall’Italia e arrivata nei canyon del Nuovo Mondo, continua con un altro mid-tempo molto Mediterraneo, non a caso scritto da Francesco Renga, portavoce di un pop-rock che più nostrano di cosiì non può essere, spezzato solo dai virtuosismi di Doug Aldrich.
Strangers to this life” è un possente rock’n’roll che cavalca i soliti stilemi ascoltati fin qui, testosterone e melodia, graffiati dai licks mai banali di Aldrich, che passa dai suoni phaser ai velocissimi fraseggi col wah-wah. Solo finale da grande shredder.
La traccia 11, To mend a broken heart, si fa ricordare soprattutto per i possenti muri di chitarre drop D (il mi basso giù di un tono), non certo per l’originalità della scrittura. Chiusura con grande dolcezza in un tipico Journey’s anthem, degno di migliaia di accendini una volta, adesso a illuminare con migliaia di smartphone i fan adoranti. A metà entra la Les Paul dell’axeman Aldrich, che inanella chorus su chorus di gran classe, intersecandosi con la grande voce di Castronovo.
Revolution Saints, una grande band, un grande sound un pò penalizzato da pezzi tutti un po’ simili l’uno all’altro. Ma nel mondo c’è un pubblico che si vuole riconoscere appieno in questo stile, vuole i dettagli, e quindi questo disco è la gloria dell’A.O.R, ormai saldamente gestito worldwide dall’italianissima etichetta Frontiers Records.
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