A chiunque, guardando un Leopardo di Antonio Ligabue, viene in mente il Doganiere. A chiunque, guardando uno dei boschi onirici e grafici di Ivan Rabuzin, viene in mente il Doganiere. A chiunque, ma non ai curatori della mostra Henri Rousseau – Il candore arcaico, aperta al Palazzo Ducale di Venezia fino al prossimo 5 luglio. Sembra incredibile ma fra le cento che si ammirano nell’Appartamento dei Dogi al secondo piano non ci sono opere naïf, eccettuate, ovviamente, tutte quelle del maestro.
Verrebbe da dire che i curatori dell’esposizione veneziana, coordinati da Gabriella Belli e Guy Cogeval, con la loro “puzza al naso” nei confronti dell’arte “non colta”, sarebbero stati tra gli accademici che sorridevano alla vista delle opere del Doganiere, soprannome che gli venne dall’attività di daziere che Rousseau svolse dal 1874 al 1893, ricavandone una piccola pensione che integrava dipingendo le insegne dei negozi, insegnando disegno in scuole per adulti oppure suonando il sassofono o il violino nelle orchestrine di paese. Comunque accumulando debiti e prestandosi anche a piccole truffe.
“Dipinge pupazzetti come uno scolaro delle elementari senza nessuna predisposizione alla pittura”. “Questa produzione puerile è una disgrazia per l’arte; essa non ha il diritto all’attenzione degli adulti”. Al massimo “c’è dello sforzo, della sincerità e un non so che di simpatico”. Queste le recensioni del tempo.
La sua stagione artistica durò molto poco, dal 1885, quando a 41 anni espone due quadri al Salon des Réfusés, alla morte, nel 1910, per una cancrena alla gamba, causata da una ferita probabilmente autoinflitta per motivi sentimentali (dopo che aveva seppellito due mogli, una giovane vedova, Léonie, rifiutò sdegnosamente le sue profferte). Nei registri dell’ospedale dove muore viene registrato come “alcolizzato” e alle sue esequie sono presenti sette persone, tra cui Paul Signac, in qualità di presidente della Société des Artists Indipendants.
Veniamo alle opere esposte a Venezia, una quarantina di Rousseau, le altre a corollario per mostrarne i riferimenti e le influenze. La loro “mission” di dissociare l’opera dell’artista dalla sua discendenza più nota, quella naïf appunto, è assolutamente “impossible”. Mentre quella parallela di elevarne le origini culturali, di mostrarne il rapporto con le avanguardie, di porgercelo come esponente di rottura nell’arte del suo tempo è totalmente riuscita.
Il Doganiere, agevolato dai superiori, ottiene già quarantenne il permesso di dipingere copie nelle principali gallerie parigine. Così, partendo dall’apprezzamento del valore degli antichi maestri – in mostra vengono proposte opere di Liberale da Verona e Fede Galizia, dello Scheggia e di Goya, a cui ha prestato occhio – elabora un arcaismo antitetico rispetto al ricorrente classicismo: imposta l’oggetto in sé come materia autentica della sua poetica e sviluppa, grazie a un talento unico nell’accumulare in perfetto equilibrio infiniti particolari e minuzie, la sempre monumentale apparenza delle composizioni.
Il suo disegno bidimensionale, dalle proporzioni emozionali, senza trasformazioni luministiche, senza atmosfere coloristiche, concreto, mostra un’attenzione totale alla vita, apparentemente senza il filtro dell’intelligenza e della cultura, in realtà con un sogno permanente da comunicare, eterno bambino e pazzo tranquillo, che è fatto di straniamento e insieme di quotidianità, di protesta e insieme di solidità.

1908
Parigi, Musée de l’Orangerie
Il percorso delle sale è tematico. Dagli interessi accademici e formativi si passa ai ritratti, a cominciare dal celebre Io: ritratto-paesaggio (autoritratto all’aperto con la Tour Eiffel appena innalzata, una nave impavesata, la mongolfiera, la dedica alle due mogli sulla tavolozza, lo fece autoproclamare inventore del genere ritratto-paesaggio, non senza suscitare le ironie dei critici: “dovrebbe brettare il titolo: ci sono tipi così poco scrupolosi da arrivare a servirsene”), e alla sala dedicata al capolavoro La guerra o la cavalcata della Discordia, l’unico quadro che gli valse in vita un articolo importante e che ben esprime la sua “ingenuità da bambino” (come la chiamava Ardengo Soffici, amico e collezionista), non solo artistica. Seguono le giungle. Senza mai essere uscito dalla Francia ne dipinse moltissime. Sei sono in mostra, tra cui la bellissima Incantatrice di serpenti immersa in una radente luce lunare, l’enigmatico Gli allegri commedianti e il Cavallo assalito da un giaguaro del 1910, commissionatogli dal mercante d’arte Vollard per cento franchi: solo negli ultimissimi anni della vita Rousseau riesce a vendere quadri con una buona continuità.

1904 – 1905 ca.
Parigi, Musée de l’Orangerie
Poi è la volta dei bucolici paesaggi di città e campagna, che introducono la carica determinante di “candore arcaico” di capolavori come I rappresentanti delle potenze straniere vengono a salutare la Repubblica in segno di pace (deriso al Salon des Indépendants del 1907, benché l’autore sperasse in un acquisto da parte dello Stato: lo troverà Picasso nel 1927 da un rigattiere), Il biroccino di papà Junier, ripreso da una fotografia come molti altri, Giocatori di palla ovale, dove cerca di esprimere il movimento di alcuni rugbisti (sport agli inizi) in una vegetazione perfettamente ordinata ed equilibrata.
Segue la saletta dedicata alla festa in casa Picasso del 1908, un po’ presa in giro con quella sedia scalcinata su una cassa per far sedere “in trono” il Doganiere, un po’ onorifica con l’acquisto dell’esposta Ritratto di donna da parte dell’anfitrione.
Chiudono una serie di sale che propongono il rapporto con il movimento tedesco innovativo del Cavaliere Azzurro dei primi del 900 (Il cortile, un’aia spoglia dalla prospettiva discutibile e galline bianche, divenne una loro icona), i severi ritratti femminili, quelli di bambini (la Bambina con bambola evidenzia l’incapacità di porre seduto il soggetto e insieme le tarde semplificazione dell’insieme e attenzione ai tratti fisionomici) e quelli famigliari, tra cui il capolavoro Nozze in campagna, i cui protagonisti sembrano non toccare terra, con i bianchi che danno verticalità e i neri che ribadiscono orizzontalità.
Tutta l’esposizione è punteggiata da tele dei molti che in Rousseau vedono un’ispirazione profonda, Cézanne e Gauguin, Redon e Seurat, Morandi e Carrà, Kahlo e Rivera, Kandinskij e Picasso, in un dialogo coerente e propositivo. Ne sono esclusi solo gli artisti di quella corrente sterminata, alimentata soprattutto da autodidatti, dilettanti e appassionati, spesso scadente, ma diffusa ovunque perché testimone della necessità di una salutare dissociazione dalla realtà contemporanea. Quella naïf.