Roberto Magris, il pianista delle cento collaborazioni

Il musicista triestino, che ormai da anni divide la sua attività tra gli States, l’Europa e l’Italia, si conferma personaggio aperto all’incontro e all’interazione. Il recente album "An Evening With Herb Geller & The Roberto Magris Trio" lo vede a fianco del sassofonista americano.

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Herb Geller

Herb Geller & The Roberto Magris Trio

An Evening With Herb Geller & The Roberto Magris Trio (JMood)

Voto:7/8

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“L’incontro con Herb è avvenuto ai tempi in cui dirigevo l’Europlane Orchestra, orchestra jazz dei paesi centroeuropei, nella quale suonavano anche musicisti tedeschi, tra cui il sassofonista Marko Lackner, che aveva studiato con Geller e che mi parlò di lui. Io ovviamente conoscevo i suoi dischi storici, in particolare Rhyme And Reason Time, nel quale suonava con musicisti europei (Philip Catherine, Palle Mikkelborg ecc.), in una sorta di Europlane Orchestra ante litteram, così lo contattai per chiedergli se era interessato a unirsi al progetto. Mi rispose di si. Nel 2003 facemmo dei concerti assieme e registrammo il cd Il bello del jazz, di cui questo nuovo lavoro è una sorta di continuazione.”

Così il pianista triestino Roberto Magris ci introduce al suo ultimo album, un esempio solare di jazz mainstream, pieno di spunti e di incontri, lungo percorso rilassante e privo di sorprese ma sempre emozionante. Si tratta – come dice il sottotitolo Live In Europe 2009 – di una serie di registrazioni effettuate al Novi Sad Jazz Festival in Serbia (nove brani) e in concerto a Vienna (due). Si tratta delle ultime registrazioni dal vivo del sassofonista californiano, che morì nel dicembre 2013, poco dopo aver compiuto gli 85 anni.

Il tocco dell’italiano, debitore chiaro nei confronti di Tommy Flanagan e Andrew Hill, e il fiato dell’americano, già protagonista del cool jazz a fianco di Chet Baker e Maynard Ferguson, si incrociano e si corteggiano vicendevolmente, in un gioco – ben sorretto dai ritmi Nikola Matosic ed Enzo Cartentieri – in cui le notissime “Lonely Woman” di Benny Carter, “Red Door” di Zoot Sims oppure “Orson” e “UMMG” di Billy Strayhorn diventano pretesti per distribuire sorrisi e piacevolezze.

Roberto Magris
Roberto Magris

“In Italia non ho mai avuto la possibilità di suonare molto”, aggiunge Magris sulla sua attività concertistica. “Suono più spesso all’estero, nei Paesi vicini a Trieste (Slovenia, Croazia, Austria, Rep. Ceca, Ungheria, Polonia…), ma una o due volte all’anno sono negli USA, dove prediligo esibirmi con il mio trio di Kansas City e con chi mi propongono di affiancare. La differenza che noto, tra i musicisti con i quali suono lì rispetto a quelli italiani ed europei, a parte l’aspetto generazionale (in Europa mi piace mantenere le collaborazioni con i miei storici partner musicali, mentre negli USA preferisco confrontarmi con le giovani generazioni), è di concezione musicale nel jazz, nel rapporto con la tradizione, in particolare con quella afroamericana, e soprattutto nel senso del ritmo. Dal punto di vista professionale, gli statunitensi hanno una marcia in più, anche se la professionalità è ovviamente una cosa ben diversa dalla creatività. Anzi a volte ho trovato musicisti americani “legati” e poco propensi, per non dire preparati, a uscire dagli ambiti circoscritti dalla loro eccelsa professionalità. Comunque, ogni musicista ha la sua “storia dietro”, la sua personalità e la sua direzione musicale, “ognuno ha le sue note”, indipendentemente dalla provenienza geografica, e sono quelle che contano veramente.”

Il suo è un osservatorio privilegiato per capire come si muovono il jazz italiano e quello mondiale…

“Io trovo che esprima musicisti molto validi e apprezzati anche all’estero. In generale, il jazz italiano oggi tende molto a ricercare nuove idee e nuovi progetti, anche tra i più disparati, forse a volte un po’ troppo, risultando talvolta dispersivo o “astruso”. Io credo che la musica dovrebbe sempre rimanere, appunto, musica, indipendentemente dall’idea che c’è a monte, fruibile con l’ascolto e non (a volte soltanto) con l’intelletto. Ma ci sono eccellenti musicisti in Italia e mi sembra che i fermenti, tra i giovani ma anche tra i “vecchi”, non manchino. Sono ottimista e positivo.

Riguardo alla situazione del jazz a livello globale, la mia sensazione è che si stia andando in una direzione felicemente progressive, addirittura ripartendo da un certo prog rock, con musicisti che operano a cavallo dei generi e tendono a una musica globalizzata, di derivazione varia, jazz, rock, e che include anche elementi della musica etnica e, perché no, classica. Però la chiave per suonarla e comprenderla passa per i due elementi tipici e fondanti del jazz: l’improvvisazione e il ritmo. Non è facile, perché il rischio della banalità e/o del naïf è sempre dietro l’angolo, ma in questo aiutano i jazzisti della vecchia guardia, cresciuti a Parker e Coltrane, che possono introdurre/guidare/agevolare i più giovani in questa cruciale fase di evoluzione musicale (mi viene in mente un Gil Evans, ad esempio).

Comunque aggiornare e riaffermare, quando serve, la tradizione come facciamo in  è parte dello stesso processo. Complicato? Solo a parole. La musica è molto più semplice e diretta: dice qualcosa o non dice niente. E anche quella che non dice niente, fa comunque “atmosfera” e magari finisce per fare tendenza.”

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Che dire? Basta citare la cura di oltre 250 cd compilation di new age, jazz, world e quant’altro? Bastano una ventina d’anni di direzione artistica dell’Etnofestival di San Marino? Bastano i dieci come direttore responsabile di Jazz Magazine, Acid Jazz, New Age Music & New Sounds, Etnica & World Music? Oppure, e magari meglio, è sufficiente informare che sono simpatico, tollerante, intelligente... Con quella punta di modestia, che non guasta mai.

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