Il padre
di Fatih Akin
con Tahar Rahim, Sevan Stephan, Shubham Saraf, Alì Akdeniz, Zein Fakhoury
Voto 6 +
Nazaret all’inizio è un fabbro armeno cristiano, felice, con una moglie e due figlie gemelle. Poi, nei colpi di coda dell’Impero ottomano, viene arruolato a forza dai turchi, fatto prigioniero, condannato allo sgozzamento e per una carità estrema sopravvive, ma senza corde vocali: pellegrino muto nel deserto, inizia a vagare alla ricerca della famiglia per tutta quell’area del medio oriente che sotto le spinte convulse della prima guerra mondiale si rimodella. Ogni tanto viene vessato, ogni tanto aiutato, è una specie di cartina di tornasole della cattiveria o della bontà umana. E a un certo punto in Aleppo incontra, lui muto, il cinema muto: Il monello di Chaplin, e il regista sottolinea quanto Nazaret e il vagabondo si somiglino. Quindi Nazaret riparte per Cuba, poi per gli Usa, infine ritrova viva una delle figlie dopo un’odissea di dolore. Cosa vuole dirci il regista attraverso il suo protagonista muto? Il calvario di un popolo? Il filo di speranza che non si deve mai estinguere? Il furioso accoppiarsi di fede religiosa, carità, pregiudizi e ignoranza che fa girare la ruota dell’umanità? Il potere salvifico del cinema? Il ritorno al kolossal? Come kolossal Il padre suona vuoto, come melò è silenzioso, come affresco storico è fragile e per mimare il classico è troppo moderno. I casi sono due: al regista Akin (quello del divertente caos di Soul Kitchen) stava a cuore o l’attenzione alla fatica di vivere (e ci può stare) o il virtuosismo dell’attore Tahar Rahim (il protagonista di Il profeta) che recita un film muto circondato da una colonna sonora in cui gli altri parlano. Ma perché un film che in originale si chiama The Cut, “il taglio”, viene titolato Il padre? Perché è muto e cercavano un’assonanza con il muto The Artist di Hazanavicious?
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