Africa. La terra degli spiriti. Al Mudec di Milano

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Africa 2“Da vicino nessuno è normale” era un bello slogan di Psichiatria Democratica di diversi anni fa. Vedendo la mostra “Africa. La terra degli spiriti” al nuovo museo Mudec di via Tortona a Milano, mi viene da dire “Da vicino nessuno è banale”.
È stupefacente come a ogni mostra di questo tipo, a ogni visita a un museo etnografico, si rimanga incantati dalla bellezza delle opere d’arte dell’Africa profonda, quella Africa 3centrale per intenderci. L’arte dei Dogon in Mali, dei Don della Costa d’Avorio, dei Yoruba della Nigeria, dei Chokwe dell’Angola, dei Fang del Gabon, l’arte delle popolazioni del Congo, sono di grande bellezza e tecnica. Nella mostra sono raccolti 270 pezzi.
L’obiettivo dichiarato dei curatori, che hanno diviso le opere in diverse sezioni, è quello di sottrarre gli oggetti all’attenzione dell’etnografia per restituirli a una nozione EXP-ARTE-CAL-12481-28219-06_-Africadi espressione estetica e creativa. In una parola: arte, pura. Lodevole.
L’impatto con la mostra è potente: nella prima sala si trova una cinquantina di sculture di dimensioni medio grandi che ci introducono in maniera quasi brutale in un universo poetico assai lontano dai nostri canoni. La mostra prosegue con le sezioni dedicate ai Benin e alla loro civiltà che raggiunse vertici di maturità economica, organizzativa e artistica tali da sfatare in maniera definitiva l’ipotesi di arretratezza che sottostava allo spirito coloniale. Vi sono poi le sezioni dedicate ai re, alle armi, agli oggetti quotidiani – pipe, poggiatesta, pulegge, posate, coppe, esposti come in una raccolta di design – e una galleria di piccole sculture davvero intrigante. Interessante anche la piccola sezione dedicata ai manufatti (cucchiai, olifanti) realizzati da artigiani angolani su commissione dei portoghesi all’inizio del ’500 e realizzati quindi in stile europeo. Chiude il tutto una bellissima sala dedicata alle maschere.
Fin qui tutto bene. Eppure…
Tanto sono eccezionali i pezzi esposti, tanto è insoddisfacente la mostra nel suo complesso. Vi aleggia una sensazione di forzatura. Il fine è certamente volto alla massima correttezza politica e questo, come spesso accade, finisce per rivelarsi controproducente.
Si sottolinea l’autonomia estetica degli artisti africani ma si fa partire la mostra con una citazione di Guillaume sul ruolo – per lui decisivo – che ebbe l’art nègre per le avanguardie europee di inizio ’900. L’avrei messa, seppure, alla fine del percorso.
Ma più autolesionista mi è sembrata la ricerca a tutti i costi dell’autorialità. Questo sì che mi pare eurocentrismo. È in Europa che nasce la figura dell’autore, a cavallo dell’Umanesimo e consolidandosi con l’affermarsi della stampa: quando il pensiero occidentale stabilisce un’accelerazione decisiva del pensiero lineare e scientifico (e non stiamo a scomodare McLuhan).
Era forse arte “inferiore” o popolare quella degli scultori umbri, per fare un esempio, del ‘300 e del primo ’400, perché non firmavano le proprie opere? O le centinaia di miniatori di cui ci sfugge il nome? O tutta la ceramica europea fino all’800?
Sebbene l’arte sia sempre arte – e bene lo dimostra questa mostra – le mentalità, i fini, le modalità e anche la fruizione erano in Africa profondamente diverse.
Anche la bella frase del poeta del Mali Amadou Hampêté Bâ citata in catalogo – “Presso di noi ogni vecchio che muore è una biblioteca che brucia” – siamo certi che sia peculiare dell’Africa o delle civiltà orali?
Un altro difetto della mostra sono le didascalie alle opere: senza tecnica e senza la provenienza. Eppure mi sembra importante sapere se un’opera è in ottone o in rame e se proviene da una collezione privata o dal Museo di Quay Branly. Insomma senza il catalogo (ben fatto, 36 euro) la visita risulta un po’ monca. I commenti dell’audioguida sono poi assolutamente da dimenticare: poca informazione e molte chiacchiere.
Infine il prezzo d’ingresso: 15 euro. Francamente, per molti, proibitivo.

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