“You need coolin’, baby, I’m not foolin’…” stava canticchiando mentre nuotava nel Wolf River, affluente del padre delle acque, il Mississippi. Acque che parlano di musica, che ricordano il blues, Robert Johnson, Nina Simone, che Jeff Buckley tanto amava.
Lui che era nato nella Orange County, contea dell’eccellenza musicale, in California, tra colline, mare e vallate. Con vicini di casa quali Frank Zappa o Philip K. Dick, era destinato a diventare musicista e sognatore. Eredità che non prese dal padre, lo straordinario musicista Tim Buckley, frequentato raramente e perso giovanissimo. Eredità che non prese neppure dalla madre, musicista classica. L’amore per il rock gli venne ispirato dal patrigno Ron Moorhead, amante degli Who, dei Pink Floyd e, soprattutto, dei Led Zeppelin.
“You need coolin’, baby, I’m not foolin’…” dei Led Zeppelin, stava canticchiando nel 1997, mentre nuotava nel Wolf River, affluente del padre delle acque, il Mississippi. Nelle vicinanze di Memphis, Tennessee
Tre anni prima, nel settembre del 1994, Jeff Buckley venne a Milano, nell’ambito di un lungo tour mondiale per presentare il suo primo album “Grace”. Si esibì in un minuscolo locale stracolmo di gente, solo ospiti selezionati. Una magica atmosfera coinvolgeva tutti i presenti. Quello di Jeff era un debutto molto annunciato, molto atteso. La fama del padre Tim Buckley era ancora viva, ma tutti si accorsero che Jeff non ne faceva il verso, seppure padrone di una drammaticità vocale molto simile… “… I’ll stand before the Lord of Song, with nothing on my tongue but Hallelujah.. Hallelujah, Hallelujah…” è stata la crepuscolare chiusura dello show. Quasi solo voce, accompagnata da una dolce e delicata chitarra. Come Jimi Hendrix fece sua “All along the watchtower” di Bob Dylan, Jeff Buckley si appropriò di “Hallelujah” di Leonard Cohen.
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Mezz’ora dopo la fine dello spettacolo, mi ritrovai in una piccola saletta dell’albergo dove l’artista era ospite. Non aveva voglia di andarsene a dormire e così passammo la notte a chiacchierare. MB: “Sei stanco?” – JB: “No, piuttosto eccitato, mi sento sempre così dopo aver suonato. Devo scaricare un po’ di adrenalina” – MB: “Credo tu possa essere soddisfatto, ho visto tutti molto colpiti dal tuo talento” – JB: “Sì, sono soddisfatto, anche se preferisco pensare che potevo fare meglio”. Parlammo a lungo di svariati argomenti: il suo amore per il jazz e particolarmente per Duke Ellington, Charlie Mingus e Thelonius Monk, l’influenza ricevuta dal patrigno sul rock ed i suoi gruppi preferiti: Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Queen. Ma su tutti, la profonda passione per Bob Dylan, Leonard Cohen, Van Morrison ed Edith Piaf.

JB: “Immagino che vorresti chiedermi di mio padre Tim?” – MB: “L’ho molto apprezzato musicalmente, ho i suoi dischi ed ancora mi ritrovo ad ascoltare brani come “I had a talk with my woman” o “Song to the Siren” – JB: “Ti confesso che, probabilmente lo conosci meglio tu di me. L’ho visto raramente, se ne andò da casa molto presto. A quell’epoca mi facevo chiamare Scott Moorhead, il cognome del compagno di mia madre. Poi, mio padre è morto quando avevo nove anni e non sono andato al funerale, ma ho ripreso il suo cognome. Solo recentemente ho partecipato ad un tributo musicale a lui dedicato. Così mi sono messo a posto con la coscienza” – MB: “Anche se hai uno stile diverso, ne ricordi la sensibilità interpretativa. Hai mai pensato di rifare qualche suo brano?” – JB: “Non lo so, non ora, ma in futuro è possibile. Sì credo che in futuro potrei farlo”.
Quale futuro? … “You need coolin’, baby, I’m not foolin’…” stava canticchiando, meno di tre anni più tardi, mentre nuotava nel Wolf River, affluente del padre delle acque, il Mississippi. Nelle vicinanze di Memphis, Tennessee. Jeff Buckley scomparve in quelle acque… “… Hear me sing, swim to me, swim to me, let me enfold you. Here I am, here I am, waiting to hold you… ” (Song to the Siren by Tim Buckley)