Spettri miei compagni. Charlotte Delbo

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Spettri«Caro Louis Jouvet,
se Euridice ritornasse, chiedendole un appuntamento, è probabile che glielo accorderebbe, soprattutto se le dicesse che è per parlare di teatro. Il suo viaggio, in confronto al mio, non era altro che una piacevole gita. Ho visto il suo inferno a Drottningholm. Come è grazioso: quei diavoli con le ali, le corna, il piede biforcuto, che scendono dal soffitto appesi al loro filo facendo smorfie e boccacce! Se sono diavoli, allora bisogna trovare un altro nome per quelli che ho conosciuto io. E le fiamme? Scaturiscono dal fuoco di bengala. Fiamme pure e morbide che non puzzano di carne umana. Ma io, a differenza di Euridice, dall’inferno sono tornata: non era affatto un luogo favorevole al sogno. Che rapporto poteva avere con il teatro? Eppure…».
Comincia così questo breve testo che mi ha folgorato, che mi ha conquistato per sempre (Primo Levi ne raccomandava la lettura, e aveva ragione), questa lettera non spedita di una segretaria al suo datore di lavoro, questo resoconto asciutto e quasi insopportabile di una stagione all’inferno di Auschwitz e Birkenau.
Un passo indietro. Chi spedisce la lettera è una donna che si rimpiange di non avere conosciuto, Charlotte Delbo (1913-1985), scrittrice di memoria (Donne ad Auschwitz) e, nel dopoguerra, coscienza vigile contro gli orrori del presente (celebri i suoi interventi contro le torture in Algeria). Francese figlia di italiani fuggiti dalla fame delle valli valdesi del Piemonte, un nonno che aveva lavorato con Eiffel. Famiglia operaia, nessuno studio regolare da mettere nel curriculum ma «ho fatto della filosofia con Henri Lefebvre». Giovane comunista di quella razza meravigliosa di autodidatti che si coltivano, che si migliorano per sé e per “il prossimo” chiunque esso sia, che hanno un rispetto e un amore per la cultura difficili da trovare tra chi la cultura ce l’ha in tavola, spalmata con il burro. Convinta che «la poesia è la migliore arma per combattere la gente che voglio combattere».
Negli anni ’30 Charlotte Delbo frequenta l’Università Operaia e nel 1936 è redattrice della rivista culturale Cahiers de la Jeunesse. L’incontro con Louis Jouvet (1887-1951) avviene nel 1937 per un’intervista: Charlotte trascrive con tale fedeltà e rispetto delle sfumature le parole di Jouvet, artista vicino alla sinistra, che lui l’assume come segretaria.
Un altro passo indietro: Louis Jouvet è uno dei più importanti attori teatrali del ‘900 francese, il responsabile della messa in scena di quasi tutto Jean Giraudoux e di una rilettura contemporanea e poco incline ai lazzi di Molière. È anche un grande attore del cinema classico: chi ha pazienza e gusto per le trouvailles può vederlo in qualche Renoir (“Verso la vita”, “La Marsigliese”), in due Carnè (un capodopera, “Albergo Nord”), in un capolavoro del noir (“Alibi” di Pierre Chenal), in molti Duvivier (io lo ricordo, attore fuori tempo massimo ed egotico che si illude giovane e seduttore nel duro e struggente “I prigionieri del sogno”, uno dei film meno consolatori che io ricordi sulla vecchiaia) e, nel dopoguerra, in molti film di Henri-Georges Clouzot.
Fare la segretaria di Jouvet significa non soltanto organizzargli il lavoro e programmargli le tournée, ma anche trascrivere le sue lezioni di teatro: pubblicate da Gallimard e ancora reperibili, saranno l’opera non soltanto del docente ma anche della stenografa. Il sodalizio fra Jouvet e Delbo, che intanto ha sposato il militante comunista Georges Dudach, dura fino al 1942. Fino all’arresto di Georges e Charlotte: fucilato lui, avviata nei lager tedeschi come “politica” lei, che aveva il compito di trascrivere le notizie di Radio Londra e Radio Mosca per la stampa clandestina.
Di quel soggiorno all’inferno, questa lettera mai spedita a Jouvet è la testimonianza. Charlotte Delbo resiste con l’aiuto dei fantasmi-personaggi: Euridice, Don Giovanni, Ondina, Arpagone. La tentazione di leggere Spettri, miei compagni come un antenato del Bacio della donna ragno c’è, e va tenuta a bada. L’immaginazione qui non è solo evasione e rifugio, ma anche gioco dell’intelligenza contro la brutalità, rifiuto di farsi inghiottire dall’universo concentrazionario: e con quanta sapiente naturalezza Charlotte Delbo distingue tra i personaggi teatrali, che devono affermarsi qui e ora sulla scena, e quelli romanzeschi che possono sbocciare e maturare. Con che vigile tenerezza evoca Fabrizio Del Dongo eleggendolo a compagno di prigionia.
Ma questo saggio sull’immaginario (sulla bellezza, sull’arte), vivido di intelligenza e penetrazione, si fa confessione nuda e lancinante di resa all’orrore, dopo che l’orrore materiale è cessato, dopo la liberazione dalla prigionia: gli anni delle cliniche, della torpida disperazione che nessuna cura riesce a scalfire, dell’incapacità di leggere anche una sola pagina, straniera a se stessa, perduta a una cultura che non può neanche lontanamente rendere l’orrore. Il gorgo e la lenta, difficile riemersione ci consegnano un eroismo quieto e vero che assume il dolore, la sconfitta e la colpa di essere vivi. «Io, ero risalita alla superficie di me stessa, e tutto ciò che mi circondava non erano che spigoli taglienti e brucianti di oggetti, di colori, di reminiscenze, di associazioni, di evocazioni che testimoniavano che G. aveva vissuto, mi aveva amato, che l’avevo amato e che non ero morta per averlo lasciato il mattino che andava a morire».

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