“Quarto potere? Alcuni lo definirono una scopiazzatura di Borges e lo stroncarono. Io ho sempre saputo che Borges non l’aveva apprezzato. Disse che era pedante e che era un labirinto… E che la cosa peggiore di un labirinto è quando manca la via d’uscita. E che questo era un film labirintico senza via d’uscita. Non va mai dimenticato che Borges è mezzo cieco…”.
Parola di Welles, parola di Dio. Con forbiciata finale.
È una delle meraviglie di A pranzo con Orson- Conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles (Adelphi). È anche un bell’esempio di come un grand’uomo possa farsi male. La coltissima recensione di Quarto potere scritta da Borges del 1941 -che si può leggere su Interrelevant -diceva che “in un racconto di Chesterton (La testa di Cesare) il protagonista osserva che nulla è più spaventoso di un labirinto senza centro. Questo film è proprio quel genere di labirinto”. E comunque si chiudeva con una profezia: “(…il film) non è intelligente anche se è l’opera di un genio, nel senso più notturno e germanico di quella brutta parola”.
Quindi Borges nel labirinto cercava il centro… Da far svenire un analista.

A pranzo con Orson (poco cibo, solo sono bocconi avvelenati), è uscito da noi su misura per il centenario della nascita di Welles ed è un tesoro di giudizi che il genio di Quarto potere (sì, genio come condanna…) dava sul mondo del cinema e su di sè mentre chiacchierava con il regista Henry Jaglom al ristorante Ma Maison di Hollywood. Jaglom teneva un registratore nella borsa, Welles faceva finta di non ricordarselo, le bobine sono rimaste in una scatola da scarpe per anni, poi il critico Peter Biskind le ha ascoltate, ordinate e ripulite. E ovviamente l’effetto è esilarante. Per chi non sappia chi sia Welles e cosa rappresenti per il cinema (è possibile) un bell’aiuto qui su Wikipedia (dove molto wellesianamente -lui aveva il culto del falso- avvertono che il riconoscimento di qualità della voce è stato messo in dubbio…).


Sul Dizionario snob del cinema di David Kamp e Lawrence Levi (Sellerio) la cosa viene risolta alla lettera J: “Jaglom, Henry. Cineasta bello, rugoso, viziato le cui commedie girate all’insegna della verbosità e dell’improvvisazione… recano il marchio della psicoterapia anni Settanta e dei discorsi da caffé degli anni Cinquanta… Deve le sue credenziali snob al ruolo di dama di compagnia di Orson Welles”.
Erano gli anni Ottanta, Welles era sui 65, era l’uomo che a 25 aveva fatto tutto e tutto gli era stato progressivamente tolto dal caso, dal mondo, dall’invidia, dall’incomprensione e dalla sua intelligenza dispersiva e distruttiva: somigliava ai personaggi che interpretava negli ultimi terribili film d’attore, un patriarca enorme chiamato per doppiare Dio alla radio, vestito come un incrocio tra un aristocratico barocco e un capocomico, faceva giochi di prestigio, mangiava di nascosto di notte e a tavola invece della lingua usava un coltello che affettava tutti. L’aneddotica da buco della serratura è esplosiva: Chaplin “cretino”, Allen “arrogante”, Brando “salsicciotto”, Olivier “beota”, certi produttori di Hollywood “assassini”, certe belle attrici squinquoie, i bosniaci deformi, la Hayworth casalinga disperata, i gangster che ispirarono il Padrino “camionisti bifolchi” e via così. Però, fatta l’abitudine al superpettegolezzo, ecco che emergono almeno altri due Welles: l’uomo colto e iperbolico che conosce sul serio -dall’interno- il cinema (che non ama vedere, ma fare sì) e il testimone -dall’inferno- di un mondo irripetibile che l’ha messo all’angolo a diventare il mito di se stesso: la macchina ammazzahollywood è troppo intelligente per non sapere che il primo ad avere fatto del male a Welles è Welles stesso.
Coinvolgere il resto del mondo è una tentazione a cui non resiste per tenere la scena da primattore (come tiene il cagnolino microscopico in braccio anche quando mangia: serve a esaltare la sua stazza e a interrompere gli approcci indesiderati con risposte che creano nemici). Welles non da’ e non chiede mai pietà, neppure al discepolo Jaglom (entusiasta, che lo spinge a riprendere a girare film) mentre sente che la deriva è irrimediabile. Welles a pranzo è un animale morente che minaccia di mordere tutti perché non assistano alla sua fine. È il suo modo di chiedere pietà. E comunque la sua fine non l’avrebbero capita (“Poi appena morto tutti scriveranno che ero un genio”). Come non avevano capito l’inizio. Come rivela (e sorprende anche Jaglom), Quarto potere (per quarant’anni in testa alla classifica di film più bello del mondo) era “una commedia, perché tutti gli elementi tragici erano caricaturali”. Per questo Jean Paul Sartre l’aveva stroncato. E Sartre, sibila la malalingua, “quando non faceva il filosofo tedesco – un tardo Heidegger- cosa in cui era bravo… ne scriveva, di stronzate”.