Forza maggiore. Dov’eri nella valanga?

La settimana bianca, la paura, la vertigine, la crisi

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Forza maggiore
di Ruben Ostlund
con Johannes Kuhnke, Lisa Loven Kongsli, Clara Wettergren, Vincent Wettergren
Voto 8

Premio della giuria a Un certain regard a Cannes 2014, il film di Ruben Ostlund è stato giustamente celebrato l’anno scorso sulla Croisette da critica e pubblico. Perché ha un equilibrio geometrico perfetto, ma allo stesso tempo condanna alla vertigine. Perché nulla è certo e “il dolce domani” non esiste. Per quanto ci si possa illudere. Il film si apre con una carrellata sulle montagne innevate al tramonto. Luce dorata e ombra. Silenzio e incanto. Siamo nelle Alpi francesi, a les Arcs, in Savoia. Ostlund scandisce il racconto in sette giorni: una settimana sulla neve di una famigliola nordica, papà Tomas, mamma Ebba e due ragazzini.
PRIMO GIORNO: tra funivie e skilift i quattro sciano tutti insieme, senza peso, nel biancore impalpabile della neve, in armonioso equilibrio di movimenti. Solo i rumori degli impianti e degli sci. Il mondo e i suoi affanni lontani. Ogni cosa perfetta. Tutto il resto del film nasce da questa breve sequenza. E infatti lo spettatore scaltro ha già paura.
SECONDO GIORNO: sulla terrazza del ristorante i quattro mangiano. Lontano si stacca una valanga, tutti guardano e fotografano, non c’è pericolo, “tutto sotto controllo” dice Tomas. Ma quando la minacciosa onda bianca sembra avventarsi su di loro, papà che fa? Afferra il telefonino, i guanti e se la dà a gambe, mentre Ebba protegge col suo corpo i bambini. Schermo bianco. Vuoto. Spaesamento. Disequilibrio. Angoscia. Dove siamo? Ma non è una valanga! Non siamo perduti, non è un brutto sogno! Solo una nuvola di pulviscolo candido che subito si dirada. Sollievo. Si torna a vedere, riemergono i colori, le cose, le persone. Ma dov’è papà? Eccolo che torna. Non è successo nulla. O è successo tutto.
PER I CINQUE GIORNI a seguire nulla sarà più come prima. Continueranno ad andare sulle piste, ma non li vedremo più sciare tutti insieme. Negli interni eleganti, ma claustrofobici delle loro stanze (girati al Copperhill Mountain Lodge in Svezia) Tomas continuerà a minimizzare l’accaduto, Ebba si macererà nella rabbia, nella delusione, nell’impotenza di fronte a un marito che nega ciò che è stato: li ha abbandonati nel momento del pericolo. I bambini diventeranno scontrosi, arrabbiati. Gli amici non sapranno cosa dire. L’albergo sarà sempre più simile a un carcere, la montagna invasa dalla nebbia, il rumore degli sci sovrastato da quello meccanico degli impianti. Finché Tomas, messo davanti alla registrazione di quel momento fatta su un telefonino, capitolerà e ammetterà ciò che ha fatto, e non solo, in un lungo pianto. “Cos’ha papà?” chiede il bambino. “Papà è soltanto molto triste”, risponde Ebba in un abbraccio corale.
Per molti critici il film avrebbe dovuto chiudersi qui, ma Ostlund, invece, azzarda di più, Non è soltanto il disequilibrio della famiglia a interessargli o il fallimento della figura del padre, la crisi del maschio, la forza della donna, l’inevitabile crisi del senso di responsabilità individuale.
ULTIMO GIORNO: La famigliola e i vari turisti salgono sul pullman destinato a riportarli a valle lungo tornanti ripidissimi che si snodano giù, per una valle di pietraie e prati brulli, a capofitto. Il guidatore non riesce ad affrontare i tornanti, non sa girare, il pullman si sbilancia ogni volta, il baratro si avvicina, indietreggia. Lo spettatore è dentro alla corriera, in soggettiva negli occhi di un passeggero: ecco di nuovo la sensazione di vuoto, spaesamento, vertigine. Chi dovrebbe condurre non lo sa fare, chi ha la responsabilità è inetto, chi ha in mano la vita di altre persone è inerte. Tutti hanno paura, lo costringono a fermarsi, scendono imprecando e si avviano a piedi lungo la strada. Guardano di fronte e camminano. Viene in mente La strada di Cormac McCarthy, ma qui non c’è più nessuno in grado di proteggere e guidare. Forse incontreranno solo zombie.  O lo sono già loro.

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