Il 18 maggio 1980 Ian Curtis, cantante di Joy Division, metteva fine alla propria giovane vita. Nelle righe che seguono, il mio ricordo di quel bambino-cantante e della poesia che portava con sé, tratto dal mio libro “ex-semi di musica vivifica”.
A house somewhere on foreign soil,
Where ageless lovers call,
Is this your goal, your final needs.
A Means To An End
Joy Division
1980
Il fatto che persino Ian Curtis fosse stato sposato, e nonostante il tormento dell’arte e tutto il resto, avesse tentato disperatamente di avere una vita normale, fa riflettere sull’urgenza imposta dalla musica e sulla sua natura travolgente.
Tutti questi adolescenti bruciati dall’orgasmo mistico della creazione, che ne faranno in verità della propria vita?
Le copertine di Joy Division fanno un passo verso una lettura eterna e insieme cupamente fuggente dell’esistenza. Non che non sia stato fatto prima. Probabilmente non vi è nulla che non sia stato fatto prima. La storia del pensiero è una spirale che dura da sempre.
Tuttavia, che ad accogliere un’estetica totalizzante nel principio della morte, a rimarcarla e a farne un tale bacio frontale fossero dei ventenni, tocca le corde della poetica più pura, poiché la radice di ogni poetica è la consapevolezza della morte come dato non solamente universale, bensì precipuamente tuo.
Per questo avere per la prima volta tra le mani un disco che riproduce in copertina forme che rilanciano esaltandola la polita visione dell’oltrepasso come sorta di sigillo finale del tempo, è qualcosa che colpisce. Anche il semplice bosco innevato riprodotto sulla copertina di “She’s Lost Control/Atmosphere” avrebbe restituito la stessa idea: la natura colta nella morte apparente della neve come distesa di ordine, venuta a suggellarla, fermando ogni bellezza in una rappresentazione che vale per sempre e per ogni cosa, era un avvenimento in grado di addolorare elegantemente.
Puoi vedervi Ian Curtis che soffre davanti al microfono, il suo volto emaciato, il suo volto sudato, la sua bellezza di bimbo antico e ammalato, i capelli impastati, gli occhi scurissimi, le ombre a truccarne i lineamenti.
La musica smette di essere divertimento, se mai lo fosse stato, per tradursi in convergenza verso tutti i significati.
E quando Closer arriva, è già il sigillo posto a una bellezza troppo intensa perché possa durare a lungo.
Ian Curtis era scomparso solo due mesi prima, e l’onda della sua morte aveva fatto sì che il mondo si accorgesse di quanta luce abbacinante fosse contenuta in quell’ultima prova.
L’apertura affidata a “Atrocity Exibition” è spiazzante, secca, ritmica.
Lascia presto il posto ai due quarti della drum-machine macerati dal basso e bagnati dalle tastiere in “Isolation”, prima che faccia ingresso la batteria, che nella successiva “Passover” sarà invece introduttiva nel suo bagno di eco breve, a una voce perentoria.
Chitarra e basso s’intersecano nel Mi minore di cui vive “Colony” con il riff di chitarra asciutto in un deserto armonico. Finché avanza la cadenza in ottave del basso e il modulo fisso della batteria di “A Means To An End”, coi versi “I put my trust in you” a precedere un rallentamento del nastro che ne decreta la fine.
Nella struggente cartilagine di tastiere e con l’ostinata frase del basso suonata in ottava alta, si materializza la voce di “Heart and Soul”, dalla cui coda sale il riff in bicordi di chitarra sospeso sul Re minore, e con l’invenzione di un’eco che esalta nel finale i rimbalzi del rullante.
“Twenty Four Hours” ha un inizio solenne per trasformarsi presto in una cavalcata punk col reiterato giro sui tom sulla prima strofa e frenare nuovamente sulla seconda, per poi raddoppiare nuovamente e ancora frenare all’ultimo.
Quando giunge “The Eternal”, annunciata dal bisbiglio ancestrale come di cicale e dalla cadenza funebre del basso crudo che introduce il passaggio dolente di cori sintetici, sui quali fraseggiano poche acute note di piano, il La minore fisso in cui galleggia la voce di Curtis, convoglia il disco verso la zona neutrale e assoluta in cui andrà a posizionarsi.
Infine “Decades”, in cui il riverbero lancia le pulsazioni di percussione che frazioneranno il tempo su cui basso e chitarra faranno da sordo tappeto per la nascita di tastiere ritmiche, accogliendo così il canto:
“Here are the young men, the weight on their shoulders
Here are the young men
Where have they been?”.
Chi poteva mai dire che Ian Curtis avrebbe salutato il mondo con quegli ultimi versi di spaesata interrogazione:
“Where have they been?/Where have they been?”.
E dove saranno mai state le coscienze per maturare tanto angoscioso sentimento delle cose?
Gli elementi biografici parleranno in seguito dei Joy Division come di un gruppo affiatato di giovani, apparentemente disinvolti e allegri come qualunque giovane compagnia, persino durante la realizzazione del disco.
La stessa immagine della copertina del disco, tuttavia, basata sulla pulizia eccelsa del monumento funebre della famiglia Appiani, fotografato da Bernard Pierre Wolff al cimitero monumentale di Staglieno a Genova, non lascia spazio ad altre letture.
Sottolinea la sua natura di opera luminosamente definitiva.
Oltre non sarebbe stato possibile andare.
Specie di mitologia tornata dal passato per annunciare sinistramente la propria lucente veridicità, i Joy Division sono la vera misura della decade.
Così, rifletti: voi avete avuto, poco più che bambini, il dono di cogliere il soffio indicibile del nulla, che ha svolato appena sopra le vostre teste. Un arcangelo il cui peso non vi è stato dato misurare.
Sinistro, bianco, meravigliante.
Tu, guardati: sei stato della generazione che ha sentito il lutto per la morte di un bambino-cantante come l’annuncio di una bellezza troppo pesante da reggere.
ciao gianCarlo,
tornare sulle pagine di un Tuo libro è sempre un
piccolo
incanto per i colori che popolano le pagine che scrivi. Complimenti a
parte, quando in un determinato momento storico si condensa il meglio e
l’essenza di ciò che lo muove, credo possa dirsi che quel momento è
magico. In esso, infatti, si riescono a distinguere, come di un maestoso
albero nel pieno del rigoglio, le
radici, il fusto, i rami che si aprono e si
moltiplicano, che si dividono in una corsa verso il cielo che si popola
di
verde. Un albero che diventa al nostro sguardo un ponte apparentemente
sospeso verso l’infinito. Si vede la campata verso l’azzurro che lo
sovrasta, in perenne
espansione ed in continua
ascesa, ma dall’altra parte, nell’invisibilità della materia densa
impenetrabile alla vista, l’albero va conficcandosi sempre di più
nell’oscurità della terra per succhiarne il concentrato di minerali,
impastati di liquidità, in una miriade di diramazioni sempre più
sottili, in una discesa altrettanto magnifica e vitale. Tensione verso
il basso e verso l’alto, in una
(foto)sintesi di luce e di tenebra, di calore e di freddo,
di aria e di terra, in un equilibrio che genera vita senza sosta.
L’albero è un ponte completo, sebbene parzialmente visibile a noi, tra
due luoghi naturali che lo nutrono e lo sostengono.
A
volte
chi si trova ad essere come quell’albero maestoso, ne esce fortificato e diventa tutt’uno con
lo splendore della sua epoca, abbracciandola e lasciandosene
compenetrare. Ma altri paiono quasi venire sommersi da tanta vitalità.
Questi ultimi, con la loro resa a quella grandiosità, la rendono ancora
più manifesta e viva. Se si riesce ad essere testimoni non
indifferenti di questa resa alla grandosità, ecco che vive la magia di
permettere a queste creature speciali di rilucere ancora raccogliendo
il loro testimone.
Il mio pensiero per un momento va ad Hoelderlin,
che in Iperione, romanzo epistolare da lui scritto sotto l’effetto
di una schizofrenia ormai incipiente, canta la grandiosità della
Bellezza celebrandola attraverso la figura dell’amata Diotima (trasposizione
letteraria della donna che Hoelderlin amò e che morì): “Noi
rappresentiamo, con il nostro mutarci, ciò che è eterno; dividiamo in
ondeggianti melodie i grandi accordi della gioia. Come suonatori d’arpa
intorno ai troni degli antichi, viviamo, divini noi stessi, intorno ai
sereni dei del mondo; mitighiamo con un fuggevole canto di vita, la
beata gravità del dio sole e degli altri dei.”
Un caro saluto