Paul Weller al Vittoriale, un baronetto in stato di grazia

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Un Paul Weller in forma stellare strega il Vittoriale. Fisico asciutto e capello argentato, il grande artista inglese si presenta sul palco qualche minuto prima delle 21.30 e attacca con un diretto e confidenziale “buonasera!” prima di intonare “I’m Where I Should Be”.
E sembra proprio che per stasera non voglia essere da nessun’altra parte che sul magico palco di Gardone, a dispensare squarci di bravura a 360 gradi. Già, perché Paul Weller non ha solo una voce straordinaria, ma riesce a riempire il palco con la sola presenza scenica, meritandosi a pieno il titolo di “Modfather”. Ci vuole un attimo a entrare in sintonia col suo pubblico, che ha riempito il Vittoriale provenendo da tutto il nord Italia e dall’estero. Il gran tiro di “Long time”, punteggiata dai fari intermittenti che rendono l’atmosfera ancora più rock, apre la strada a “Wild Blue Yonder”, autentica chicca in scaletta, per poi tornare al rock di “White Sky”, brano apripista del più recente “Saturns Pattern”.
A questo punto bisognerebbe parlare della band, perché sir Paul si avvale di musicisti davvero straordinari, a partire dalla scelta del doppio batterista con Ben Gordelier a destreggiarsi tra cassa, rullante, percussioni e cori. I chitarristi sono impeccabili, con Steve Cradock sugli scudi, ma lascia stupefatti la maestria dello stesso Weller alla sei corde, capace di dispensare assoli da applausi a scena aperta.
Il concerto prosegue spedito con “Into Tomorrow” e “Above the clouds”, mentre una breve presentazione introduce “The Attic”, tratta da “Sonic Kicks” (2012), e “Saturns Pattern”, degna title-track dell’ultimo album. Poi Paul dimostra, se ce ne fosse mai bisogno, di essere un pianista coi fiocchi eseguendo una struggente “Going My Way”. Quindi avanti con svariate perle della sua carriera solista: “From the Floorboards Up”, “Friday Street” e “Porcelain Gods”, impreziosita dall’hammond e da uno strepitoso assolo di batteria giocato sul cambio di dinamica. Quando Weller si riaccomoda al piano i brividi cominciano sulle note di “Brand New Toy” e raggiungono l’acme sulla strepitosa “You Do Something to Me”, conclusa dall’atmosfera di cinque maxi lanterne accese sul fondo del palco. Il ritmo torna a salire con “Come On Let’s go” e si impenna sull’osannata “Start!”, primo e ultimo pezzo targato The Jam in scaletta. Poi un’altra sorpresa: il programma prevede “Peacock Suit”, ma Paul tira fuori dal cilindro una “Whirlpool’s End” da applausi con tanto di sha la la la nel ritornello.
Escono tutti ma vengono richiamati a gran voce da una platea entusiasta, che viene ricambiata con “Sunflower”, la dilatata “These City Streets”, una delle vette più alte dell’ultimo album, “Out of the Sinking” e il gran finale di “My Ever Changing Moods”, ripescata dal repertorio degli Style Council ma ancora attualissima per un’artista che sembra aver fermato lo scorrere del tempo. Un’ora e mezza abbondante di pura magia, un’artista in stato di grazia e una band che lo asseconda alla perfezione. A trovare il pelo nell’uovo i tanti classici rimasti fuori scaletta, ma si tratta di dettagli quando la qualità è un marchio di fabbrica.

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