Locarno. Southpaw. Gyllenhaal sinistro…

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Mancino, pugile mancino, o anche persona mancina. Questo vuol dire Southpaw. Doveva essere un film per Eminem, seguito ideale di 8 Mile, e non è chiaro come si è trasformato in questo film di boxe per Jack Gyllenhaal. Nell’evoluzione del soggetto è diventato “il boxeur di Montecristo”: nella prima parte l’eroe, Billy Hope, che viene da un brefotrofio, all’apice della sua fortuna  ha una bella moglie innamorata, una figlia amabile, un castello da cafone arricchito, macchine tutte super, scherani ai suoi ordini, un manager che trasuda infamia anche da fermo e quando combatte sul ring più che altro fa boccacce all’avversario o chiude con risse da strada. Più che un pugile sembra un gangsta. Ma la sventura incombe: preso di mira da una specie di gangster che vuole il titolo  e provocato, in un sola sera perde la moglie ammazzata, la villa, le macchine, i soldi, la stima della figlia (che gli viene sottratta dai servizi sociali) ed è abbandonato da tutti.
Come nei drammoni di un tempo, solo chi cade può risorgere e così Hope, per riconquistare hope (la speranza), si rivolge a un allenatore povero e orbo che addestra solo bambini poveri. Accetta di fare l’uomo delle pulizie nella palestra e in un tempo improbabile cambia stile di boxare perché ha trovato il maestro che gli dice che sul ring è come giocare a scacchi e devi sfruttare le carenze dell’avversario più che aggredire. Match finale, avete capito come va a finire. Niente paragoni coi classici o coi Rocky. Fuqua sembra aver fatto tutto il film come Hope combatteva nel primo tempo: devastato, sudato, insanguinato e cristologico, sempre sul calvario. Il secondo tempo ricorda Kung Fu Panda (ma non è chiaro se per gli  insegnamenti o gli occhi pesti): niente di nuovo sul ring…

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