Il defunto odiava i pettegolezzi. Vitale su Majakovskij

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Il defunto odiava«Non incolpate nessuno della mia morte e, per piacere, non fate pettegolezzi. Il defunto li odiava. Mamma, sorelle e compagni, perdonatemi – non è questo il modo (non lo consiglio ad altri) ma non ho vie d’uscita. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è composta da Lilja Brik, mia madre, le mie sorelle, e Veronika Polonskaja. Se per loro organizzerai una vita tollerabile – grazie. Le poesie già iniziate datele ai Brik, ci penseranno loro. Come si dice – l’incidente è chiuso, la barca dell’amore si è schiantata contro l’esistenza quotidiana. Io e la vita siamo pari e a nulla serve l’elenco dei reciproci dolori, disastri, offese. Buona permanenza al mondo. Vladimir Majakovskij».
Il 14 aprile 1930, tra le 10 e le 10.30 del mattino, il cantore principe dell’epopea sovietica si spara un colpo al cuore. Nella stanza-studio di una communalka, un’abitazione condivisa con altre quattro famiglie. Con lui c’è l’attrice ventiduenne Veronika Polonskaja detta Nora.
Che cosa è successo? Per che cosa si uccide un uomo, un poeta (il biglietto di Majakovskji ha un punto in comune con il più laconico appunto che Pavese lascia all’Albergo Roma di Torino, il 28 agosto 1950: «Non fate troppi pettegolezzi»)?
Serena Vitale, slavista e narratrice di razza (suo il meraviglioso Il bottone di Puskin, ancora sulla morte violenta di uno scrittore), indaga sul mistero di quella morte, sul “caso” che nel corso degli anni su quella morte è stato imbastito. Con esaustiva (fin troppo esaustiva) mole documentaria porta in luce contraddizioni, illazioni e pettegolezzi.
Majakovskij, a 37 anni, è il più importante e popolare poeta sovietico. Acclamato ma anche contestato. Forse non amato dalla nomenklatura (i suoi lavori teatrali del periodo, le sue satire del nuovo piccolo-borghese, sono clamorosi fiaschi), forse dalla vena che comincia a inaridirsi, forse preso di mira dagli scrittori del realismo burocratico-socialista, ma non perseguitato né, a quanto risulta, in procinto di esserlo. Ancora più implausibile l’ipotesi che sia stato soppresso dai servizi segreti per mano di Jakov Agranov suo amico. Agranov, il “boia dell’intelligencja” che fra l’altro manderà in Siberia Mandel’stam e farà arrestare il figlio di Esenin, era persona troppo in vista per sporcarsi le mani: al massimo lo avrebbe fatto sopprimere (il polonio non esisteva ancora) simulando l’incidente, l’accidente.
Senza cedere al cliché dello stalinismo oppressivo e persecutore (il che lo stalinismo fu, e in maniera feroce), bisognerà ricordare che Majakovskij era, comunque la si voglia mettere, un privilegiato. Che poteva fare viaggi a Parigi e in America. Che comprava scarpe inglesi e stilografiche americane. Che frequentava modelle di Coco Chanel. Che a Mosca aveva auto privata con autista e, quando l’autista era di riposo, prendeva il taxi. Che si lamentava di pagare troppe tasse. Resta il movente privato. Il sentirsi finito: forse in declino, forse in pericolo. Il sentirsi solo, artefice e alla fine vittima di una precarietà sentimentale cercata ma non sopportata. Majakovskij il vitalista, il poseur, l’egocentrico buono e assetato d’affetto, “larger than life” come è accaduto a molti artisti russi, in preda ai morsi della delusione amorosa.
Dal 1917, il poeta divide la casa (e il cuore, e il letto) dell’amico Osip Brik con la moglie di lui, Lilja Brik (1891-1978). Un mènage à trois da cuore oltre l’ostacolo, da “Jules e Jim”, in un periodo, l’inizio della rivoluzione, in cui la famiglia tradizionale è cannoneggiata non meno del Palazzo d’Inverno? O un rapporto di reciproca convenienza, di scambio ineguale? La ricerca di affetto (Majakovskij), contro l’affermazione di un potere seduttivo (Lilja Brik) o, addirittura, la conquista dello scalpo del più famoso poeta sovietico?
Mentre sta con Vladimir e con Osip, Lilja si concede altre storie, e altrettanto fa Majakovskij. Che a Parigi s’invaghisce di Tat’jana Jakovleva, splendida mannequin che cerca di convincere a rientrare in Russia e a sposarlo (Tat’jana sposerà invece un aristocratico francese e, alla morte del primo marito per mano dei nazisti, sarà a New York creatrice di cappelli per Saks Fifth Avenue e moglie dell’art director di “Vogue”, ma questo Vitale non lo dice). E Lilja, per togliergli di testa Tat’jana, lo spinge fra le braccia della Polonskaja. Una strategia di controllo, di manipolazione? O al contrario la generosità disinteressata da “if you love somebody set them free”? E la Polonskaja, attrice di belle speranze, si lascerà sedurre dall’uomo o dal monumento? Il marito di lei chiuderà gli occhi per superiore assenza di gelosia o per calcolo? Avrà meditato, come affermerà in un libro di memorie di molto posteriore a quel tragico mattino, di lasciare il marito per lui? O si sarà ritratta, sarà fuggita di fronte a un amore assillante, geloso, esclusivista?

Veronika Polonskaja non farà carriera né la cercherà. E, a dire il vero, non cercherà neppure (dal marito attore, e in seguito star, ha divorziato) di occupare un sia pur piccolo ruolo pubblico di vedova e vestale. Cosa che invece farà Lilja Brik, alla quale va il merito di avere spinto Stalin a rivalutare e rilanciare il poeta. Anche lei sembra segnata da quella tragica uscita di scena: in quello stesso 1930 (Serena Vitale non lo dice) divorzia da Osip Brik, «più che un marito, più che un fratello». Sposa un generale dell’Armata Rossa che qualche anno dopo verrà fatto fucilare da Stalin, in terze nozze uno scrittore che diventerà (per procura?) apologeta di Majakovskij. Di lei, della longeva Lilja, non resta quasi niente: soltanto i versi d’amore che le ha indirizzato Majakovskj, soltanto la corrispondenza con Vladimir e con la sorella Elsa Triolet, scrittrice naturalizzata francese (vincerà anche un Goncourt), comunista e moglie di Louis Aragon. Per saperne qualcosa di più, forse occorrerà cercare altrove. Per esempio in Them di Francine du Plessix Gray, all’apparenza figlia di Tat’jana (Penguin, 2005). O in Lili Brik: portrait d’une séductrice di Arcadi Vaksberg (Albin Michel, 1999). Di certo le rapide pennellate della Vitale (la “musa con la frusta” o la citazione di Viktor Sklovskij: «Non era una donna ma tutta una citazione, dalla testa ai puedi») accendono la curiosità senza placarla.
Piuttosto che improbabili misteri o segreti (si è sparato con una Browning o con una Mauser? qualcuno ha usato la scala di servizio? che cosa c’era nelle misteriose carte sigillate e sequestate dai servizi segreti?), forse era il caso di indagare più a fondo il corto circuito fra essere ed apparire dell’era sovietica. Majakovskij viene criticato per tendenze piccolo-borghesi: il privato, il sentimentale, il giovane amoroso che incrina il monolite dell’uomo di ferro approdato alla fama con distici come «Mangia ananas, mastica fagiani/ non ti resta, borghese, alcun domani». Più o meno, è quel che dice il bolscevico Lunaciarskij nella commemorazione pubblica.
E viceversa, il mettere a tacere tutto da parte delle autorità sovietiche per risacralizzare il cantore del proletariato.
Invece la mancanza di unidimensionalità (in alcuni casi, il verminaio che si intuisce come se si sollevasse per un attimo un masso) restano sullo sfondo, accennati e non indagati.
Bel libro, “Il defunto odiava i pettegolezzi”. Ma resta la sensazione di uno splendido antipasto a cui non seguono i piatti di portata.

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