” … Wherever there’s somebody fightin’ for a place to stand, or decent job or a helpin’ hand, wherever somebody’s strugglin’ to be free … look in their eyes Mom you’ll see me” … sì, lui voleva essere come Elvis, ed invece diventò l’urlo della classe operaia. Io, potessi, vorrei essere come lui, per la sua potente personalità, per la sua musica, per l’energia, per la saggezza, per la sincerità e soprattutto per la coerenza. Sì, come Bruce Springsteen, l’eroe proletario.
Quel mattino nessun aereo poteva prendere il volo, c’era nebbia totale in tutta l’area milanese. Però io dovevo assolutamente partire; a Londra mi attendevano Jon Landau, il mitico giornalista che seppe individuare il futuro del rock, ed il suo artista: il futuro del rock. Un piccolo aereo, da Lugano, atterrò controvento a Zurigo e poi, da lì, raggiunsi comodamente Londra. Era questo uno dei tanti incontri avvenuti con Springsteen; d’altronde, se lui era nato per correre, anch’ io, che per lui lavoravo, dovevo correre per stargli dietro. In questa riunione descrissi come avrei promosso gli album “Human Touch” e “Lucky Town” e ricevetti il gratificante consenso dei miei giudici. Non fu impresa facile. Il popolo amava Bruce ma, in quel periodo, vedeva con occhio critico l’abbandono della sua storica band.
Quando è iniziata la mia collaborazione Bruce Springsteen era all’apice del successo con “Born in Usa”. Poco dopo sciolse la E Street Band, non certamente per colpa mia. Anzi, già prima di lavorare con lui, avevo promosso alcuni album di Little Stevens con i suoi Disciples of Soul. Ricordo pure un viaggio con Steve Van Zandt, il suo vero nome, sino a Riccione per registrare un programma tv, ma non c’erano le telecamere o meglio, c’erano ma spente. Il bluff, a nostre spese, di un celebre impresario e produttore televisivo, solo per richiamare pubblico nella sua mega discoteca. L’impresario avrà scoperto che si è perso la registrazione non solo di un grande musicista ma quella di un grande futuro attore (serie tv Soprano e Lilyhammer)?

Sono molti gli episodi in cui mi trovai a fianco di Bruce Springsteen, soprattutto ai suoi concerti, ovunque in Europa, in Italia, a Milano. Proprio a Milano, mi viene in mente una quasi tragica serata quando, dopo il concerto, andammo a cena in un ristorante nel centro e tutti mangiammo funghi. Quella notte Bruce, dovette chiamare d’urgenza un medico in hotel, intossicazione da funghi. La sua straordinaria carriera poteva terminare in quell’occasione, per fortuna si riprese. In realtà stettero tutti male tranne il sottoscritto che, come direbbe Keith Richards:”Ce ne vuole per intossicarmi”.
Avevo visto sbocciare l’amore tra Bruce e Patti Scialfa in un hotel a Roma, ma fu poi a Torino che, durante una festicciola dopo un ennesimo concerto, lui si lasciò andare ad un’esplicita dichiarazione d’amore. Quella sera suonammo, ballammo e cantammo un po’ tutti, intonati o stonati. C’era informale allegria. Il mio leggendario ufficio stampa, ad un certo punto, commossa disse:-“Ho i miei due Boss di fronte, insieme, che emozione” e Bruce mi abbracciò con complicità -“Boss, non mi piace, ma è il termine con cui usualmente vengo chiamato dalle persone che lavorano con me, soprattutto dalla mia band” .
Una volta mi stupii per la sua sensibile attenzione. Lo stavo osservando durante le prove di un concerto. Io ero in penombra e lui sul palco poco illuminato. Al termine del soundcheck scese mi venne incontro e, dopo avermi salutato con voce calda ed affettuosa, mi chiese se avevo risolto il mio problema. Erano mesi che non ci vedevamo e, la volta precedente, durante una chiacchierata, gli avevo confidato un episodio personale. Questa sua semplicità, questa sensibilità non mi sorpresero, ma mi colpì particolarmente la sua memoria.
Il rock non morirà: finché ci saranno artisti, come Bruce Springsteen, in grado di scuotere nella mente riflessioni profondamente umane, la musica avrà un futuro luminoso e il Boss sarà sempre il nostro eroe proletario.
Nel 1996 lo convincemmo a venire come ospite a Sanremo. Sognavo di sentire il rumore dei tacchi dei suoi stivali su quel palco, in un silenzio irreale. La sua chitarra iniziare l’arpeggio su cui la sua voce, poetica e persuasiva, roca e maestosa, in un’atmosfera potente come i bassifondi del New Jersey, avrebbe ipnotizzato un pubblico solitamente distratto e superficiale. Pippo Baudo, professionista unico e serio come nessun altro, capì lo straordinario evento della sua presenza al Festival e decise che sul palco doveva esserci solo lui, Bruce Springsteen. Quindi lo annunciò, in piedi nel mezzo della platea, con l’adeguata enfasi. Springsteen propose un brano molto particolare, per nulla commerciale, ma suggestivo, profondo, e pretese che, sullo schermo, le parole venissero sottotitolate in italiano mentre lui le interpretava, perchè era suo forte desiderio che il vasto pubblico televisivo ricevesse l’importante messaggio contenuto nel testo, ancora attuale, dopo tanti anni:
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Che dire… Springsteen e’ uno di quegli artisti per cui sono contento di essere nato nella sua stessa epoca e aver avuto l opportunita’ di vederlo dal vivo tante e tante volte. Grazie per il racconto