Voglio molto bene a… i Pink Floyd. Passai giornate intere, quand’ero ragazzo, a cercare di trascrivere il testo di The Gnome per poi suonarlo alla chitarra. Poi divorai tutti gli album successivi a The Piper at the Gates of Dawn cercando di ricreare su un piccolo organo a drawbars le atmosfere liquide e spaziali di Ummagumma. Erano tempi in cui i film rock come PF at Pompeii si potevano vedere al cinema, come quelli a cui avevano realizzato la colonna sonora, soprattutto Zabriskie Point con l’esplosione della villa sull’urlo di Careful with that Axe, Eugene. Dal vivo no, non mi era mai stato possibile. Avevo dovuto accontentarmi delle recensioni di Ciao 2001 che parlavano di effetti luminosi e sonori, duelli aerei, maiali volanti, evoluzione estrema dei giochi di luce psichedelici che avevano sperimentato all’Ufo Club e che avevano visto con loro disappunto copiati poi a Roma al Piper, protestando per questo con Bornigia e Crocetta, gli storici gestori, secondo quanto mi raccontò Patty Pravo.
Un giorno d’autunno del 1981 Francesco Sanavio, noto impresario veneziano, mi telefonò: «Vado in Germania a vedere The Wall. Ho un biglietto in più. Ti interessa?». Ci trovammo sull’aereo. A Dortmund andava in scena l’ultima rappresentazione europea dell’opera rock pinkfloydiana (ci sarebbero poi state solo poche altre date in Inghilterra). La Westfalenhalle era un velodromo multifunzione, esempio di lungimiranza e praticità tedesca. La pista poteva essere smontata e la struttura diventare un kursaal, una sala congressi, una discoteca, un palasport, un teatro o una sala da concerti rock a seconda delle esigenze. In Italia, dopo 35 anni, ancora non esiste nulla del genere. In Italia all’epoca il pubblico doveva ammassarsi ore prima ai cancelli, correre in cerca di uno spazio e poi convivere tra le gambe dei vicini in una massa umana informe. A Dortmund entrare nella Halle fu uno shock: undicimila posti numerati a sedere. Un gigantesco muro di mattoni bianchi che tagliava in due la sala, un palco colossale, torri di amplificazione ai lati e alla spalle della platea e, sul palco, per la prima volta casse sospese per aria anzichè appoggiate a terra, perché nulla ostacolasse la scena.

In questi giorni è nei cinema il film che Roger Waters ha tratto dai concerti negli stadi della sua ripresa di The Wall e chi ha visto lo show dal vivo è sicuramente rimasto impressionato dalla potenza artistica e tecnologica di questo che è probabilmente il più mastodontico concerto-spettacolo rock mai messo in opera. Il film è inoltre la realizzazione dopo 34 anni del progetto originale – trarre dallo show un documentario affidato ad Alan Parker – che fu abbandonato per la scarsa qualità delle riprese dal vivo e trasformato in quello che il regista ha poi realizzato con Bob Geldof nella parte di Pink.
Ma nel 1981 non c’era tutta la tecnologia odierna, era tutto analogico e manuale. Il “centro di comando” era una gabbia di mixer e tecnici affaccendati attorno a numerosi registratori a bobina, a proiettori a pellicola e per diapositive che dovevano proiettare immagini sul muro in cinemascope sincronizzando tre diverse macchine, mentre per i video c’era il consueto schermo tondo che usa ancor oggi David Gilmour.

Tutto era sorprendente, dal pupazzo di Pink gettato all’inizio sul palco, al presentatore omaggiato di una torta in faccia alla fine del suo annuncio (uno scherzo della crew!), al suono quadrifonico che ti avvolgeva da più parti, all’aereo che all’improvviso sorvolava le teste per schiantarsi sul muro, la camera d’albergo che si apriva a sinistra, fino ai pupazzi giganti che comparivano a dare volto e corpo ai vari personaggi e il maiale volante sulla platea. L’operazione più complessa per i tempi, tanto che nelle riprese dell’opera in anni successivi (Berlino 90, gli ultimi tour) Waters vi ha rinunciato, era far muovere per il palco il burattino gigante del Maestro, due fari luminosi al posto degli occhi e il corpo snodabile che gli consentiva di spostarsi come camminando tra i vari musicisti grazie a cavi collegati alla classica croce del burattinaio mossa a distanza. Alla fine riuscii ad andar sul palco tra i mattoni di cartone ormai crollati, a curiosare impressionato dalla gigantesca struttura, gli strumenti, le soluzioni inedite. Ci ritrovammo la sera all’aftershow con il bassista della band-clone Andy Bown che girava con un elmetto della Wermacht in testa e Waters interessato alla proposta di portare l’opera in Italia, magari all’Arena di Verona. Non se ne fece poi nulla perchè non esisteva all’epoca alcuna possibilità di appendere in uno spazio aperto tutta l’amplificazione e l’attrezzatura necessaria. Per vedere The Wall in Italia, a parte la terribile diretta tv del 1990 da Berlino, ci son voluti più di trent’anni. Il messaggio di solitudine e alienazione di un tempo è rimasto e si è modificato diventando una più chiara denuncia contro un mondo impazzito e belligerante. Waters ha portato avanti il progetto da solo, seguendo le sue idee, le stesse che avevano portato il gruppo a spaccarsi, ma l’eco musicale degli altri tre rimane intatto nell’opera anche se non è più Gilmour a muovere le dita sulla Stratocaster dall’alto del muro. In questi casi la musica prescinde dai suoi creatori.
Giò Alajmo
