Se pensate che il Giappone riduca la sua gastronomia al sushi vi sbagliate di grosso.
Se pensate che la sua cucina sia l’essenza della leggerezza vi sbagliate solo in parte.
Se pensate che ogni piatto venga servito con stile ed eleganza non vi sbagliate affatto.
In Giappone, come nel resto del mondo, per mangiare si può spendere pochissimo o moltissimo. Ma alcuni elementi non cambiano affatto: la pulizia, l’attenzione nella scelta degli ingredienti e la cura nella presentazione.
Nelle tre settimane in cui ho girovagato nelle grandi metropoli come Tokyo e Kyoto o nei paesini più sperduti come Kinosaky o Takayama, ho sempre cercato di assaggiare cibi diversi. Nella quasi totalità dei ristoranti o localini in cui ho mangiato gli avventori erano esclusivamente giapponesi. Gli stranieri aumentano nei ristoranti di sushi e confesso che non mi sono lasciata tentare dai locali consigliati dalle guide o da Tripadvisor, ma sono sempre andata “a occhio” o “a naso”, senza mai rimanere delusa.
Inoltre, ove possibile, soprattutto a cena, dopo una giornata passata a camminare ininterrottamente, ho approfittato dei mercati o dei minimarket per acquistare ingredienti locali e cucinarli nei residence o negli ostelli dove ho soggiornato.
Fare la spesa al mercato del pesce di Tsukiji (il più grande del mondo), facendo lo slalom tra le bancarelle che espongono specie ittiche assolutamente sconosciute, è un’esperienza che molti cuochi vorrebbero fare. L’unico dispiacere è quello di non avere a disposizione una cucina vera e propria per trasformare, come si deve, una materia prima così preziosa.

I giapponesi, per il pesce, sono davvero maniaci della freschezza. E quello che non consumano fresco viene proposto in versione essiccata, spesso sotto forma di chip, aromatizzato con soia e sesamo o con altre spezie. E molti dei pesci proposti sembrano quasi creature aliene, leggiadre nella loro disidratata bellezza.

Un’altra costante dei loro pasti sono i sottaceti: rape, zenzero, radici e verdure di ogni tipo vengono marinate e conservate in grossi mastelli di legno e vendute sfuse, o in buste sigillate. Il sapore di questi prodotti è spesso pungente e speziato, la consistenza morbida ma croccante, il gusto salato con una punta di dolcezza. E’ il gioco dei contrasti che i giapponesi tanto amano in cucina e che, a mio avviso, rispecchia molto il loro tipo di vita: moderno senza mai dimenticare la tradizione.

Per non parlare della passione per i dolci: credo di non aver mai visto tante pasticcerie in vita mia e, pur non essendo un’amante del genere, ho apprezzato i delicati cannoli di cialda ripieni di crema al tè Matcha, una preziosa qualità di tè verde molto utilizzata per realizzare piccoli capolavori, meticolosamente incartati ad uno ad uno e venduti in eleganti confezioni, ovunque nel Paese. Molto diffusi sono inoltre i dolcetti ripieni di marmellata di fagioli azuki, un legume curiosamente utilizzato prevalentemente per la pasticceria. Con il tè Matcha viene realizzato anche un particolarissimo gelato, dal gusto dolce-amaro e che, obiettivamente, non è per tutti i palati…

In un viaggio in un Paese dalla gastronomia così vasta, mi ritengo fortunata per una caratteristica che non ho scelto, ma che mi ha molto facilitato nella vita: mangio qualsiasi cosa, anche ciò che non conosco o, ancora peggio, non riconosco. Perché non è sempre facile capire che cosa ti arriva nel piatto, quando devi scegliere da un menù esclusivamente scritto in giapponese e che, quando va bene, ti mostra una foto o una rappresentazione in plastica del risultato, ma non degli ingredienti che lo compongono.
Ed è così che mi sono ritrovata a magiare spiedini di pelle di pollo grigliata, palline di farina di riso ricoperte di salsa di soia e zucchero, zuppa di miso (condimento derivato dai semi della soia gialla) alle 8 del mattino, sushi con uova di pesci sconosciuti o verdure sott’aceto di cui ignoravo, e ancora ignoro, la natura.
Spiedini “sorpresa”

Fatta questa premessa, so bene quale sarebbe la vostra domanda, se me la poteste porre: ma.. il sushi e il sashimi come sono?
Scordatevi la versione all’italiana con il riso troppo compresso e le fettine di pesce troppo sottili. Per i giapponesi con il sushi non si scherza. Lo spessore e la tipologia di taglio, che viene dato al pesce crudo, sono un trionfo per il palato. Il riso, nel sushi, non è il protagonista del piatto, ma solo il supporto di un boccone di pesce delizioso. Per realizzarlo vengono utilizzati numerosi tipi di pesce, prevalentemente locale. E quando si arriva al tonno, la qualità e il costo variano sulla base della grassezza del taglio: più è grasso, più è caro. E quindi il migliore non è rosso, ma delicatamente rosato.
Ma come? Il più grasso è il più costoso? Proprio così. Nel pesce, come nella carne, per i giapponesi il grasso è sinonimo di sapore e qualità. Provate e non potrete che condividere il loro punto di vista.
Parlando di grassezza, non si può non citare il famigerato manzo di Kobe, sul quale sono stati spesi fiumi di parole. Questo manzo fornisce una carne molto marezzata, ovvero con sottilissime venature di grasso presenti su tutta la fetta. Il suo costo è astronomico ma, in giro per il Paese, non è raro trovare altri tipi di manzo altrettanto buoni, come quello di Hida, che ho provato (… anche a colazione) appena scottato su un fornellino in un pentolino ricoperto di foglie di magnolia essiccate. Una delizia.

Altre passioni giapponesi, di cui difficilmente riuscirete a liberarvi, sono i noodles. Serviti in mille modi, sono l’accompagnamento di quasi ogni piatto, molto più del riso.
Ve li ritroverete nel ramen, immersi in un brodo denso e saporito, con sottili fette di maiale bollito e cipollotto fresco, o in un formato più spesso (udon) serviti caldi o freddi come accompagnamento alla tempura (pesce e verdure fritte in una croccante pastella), e in mille altre zuppe che schiere di impiegati in giacca e cravatta, o ragazze vestite come eroine manga, sorbiscono risucchiando rumorosamente ad ogni ora del giorno e della notte.

I giapponesi mangiano tanto, sempre, ad ogni ora, ma mai sui mezzi pubblici, dove preferiscono dormire o immergersi nei loro smartphone Non c’è momento in cui non si veda qualcuno seduto nei numerosi chioschetti o ristoranti, sgranocchiare, masticare o risucchiare qualcosa, un po’ gobbo sulla sua ciotola, facendo scempio di foreste con le sue bacchette di legno usa-e-getta.

Altra passione, costosa e deliziosa, è l’anguilla. La tradizione la vuole cotta alla brace, cosparsa di salsa agrodolce e servita su un letto di riso. Oppure cotta al momento con un cannello da cucina, e proposta in versione sushi.
E per insaporire il tutto, oltre alla salsa di soia, una grande attenzione viene riservata alle alghe. Non servono solo per arrotolare i maki sushi, ma anche per insaporire i brodi, sminuzzate su piatti caldi o freddi o aggiunte alle zuppe, con il loro delicato sapore marino conferiscono sempre un aroma speciale.
Come ho già detto, in Giappone si può spendere davvero poco per mangiare. Ed è quello che ho sempre cercato di fare poiché è l’unico modo per avvicinarsi alla cucina delle persone comuni. Trovarsi gomito a gomito con le persone del luogo, guardare cosa e come mangiano, osservare il gestore di un piccolo locale che, davanti a voi, prepara il vostro pasto è, a mio avviso, uno dei modi di gustare l’anima di un Paese.
In un ryokan (albergo tradizionale) di Takayama, un antico paesino sulle Alpi Giapponesi, ho voluto però provare anche una cena tradizionale. Per farlo mi sono dovuta abbandonare alle cure di persone che, dal mio arrivo alla partenza, mi hanno servito con reverenza, mi hanno fatto scegliere un kimono da indossare, mi hanno preparato il futon (sottile materasso steso, per terra, su un tappeto di stuoia chiamato tatami) sul quale avrei dormito e mi hanno servito un pasto straordinario, con alternanza di pesce crudo e carne cotta, di cibi freddi e caldi, soffici o croccanti, salati e agrodolci, in un trionfo di contrasti difficili da dimenticare.
La vera sfida è stata la prima colazione alla giapponese, a base di salmone, manzo, omelette e brodo di miso, il tutto accompagnato da tè verde. Ogni tanto, per fortuna, le mie origini teutoniche mi vengono in soccorso, staccandomi dall’italiana tradizione di cappuccino e brioche. Per tutto il periodo ho fatto ampio uso del caffè solubile che mi ero portata dall’Italia e che è praticamente l’unica cosa a cui faccio fatica a rinunciare al mattino. Ma se si deve provare tutto, non mi tiro certo indietro.

Solo una cosa non ho voluto provare: il velenosissimo fugu, meglio conosciuto come pesce palla. Per servirlo, il cuoco deve avere un patentino che ne attesti la capacità di servirlo senza ledere gli organi del pesce che contengono una tossina letale. Se ne può fare francamente a meno…

In un articolo precedente avevo già dichiarato che, ovunque vada nel mondo, mi porto una bottiglietta di olio extravergine d’oliva per cucinare, ove possibile, le mie cene. Questa volta, parte di quest’olio è stato oggetto di uno scambio con la proprietaria di un ostello che, gentilmente, mi aveva offerto un piatto del cibo che stava preparando per la sua famiglia. E’ stato bello vedere come lo annusava, dichiarando che l’avrebbe provato sul pane a colazione. Ed è stato ancora più bello sentirla apprezzare, il giorno dopo, un prodotto di cui dobbiamo andare fieri.
In Giappone non mi è mancata la cucina italiana. In realtà, quando viaggio, non mi manca mai. Anche se è sempre bello, al ritorno, aprire un vasetto di pomodori del mio orto, amorevolmente preparati a Settembre, buttarli in una pentola con aglio e peperoncino, sentire il profumo e gustarmi un piatto di tagliatelle fatte in casa.