Nelle puntate precedenti abbiamo esplorato il mondo dell’autoritratto pittorico dagli albori all’arte contemporanea. Ora è la volta di scoprire l’immagine che hanno lasciato di sé i fotografi e, perché no, anche qualche persona comune che si è rivelata, molti anni dopo, un talento naturale. Una per tutti, Vivien Mayer.
Come per tutte le nuove forme di espressione, anche la fotografia faticò a trovare la sua strada, tanto che, il pittore francese Paul Delaroche (1797-1856) arrivò a dire che la fotografia avrebbe ucciso la pittura. Invece, poco alla volta, la fotografia contribuì in modo decisivo – almeno secondo me – a modificare l’arte, liberando gli artisti dall’obbligo di riprodurre il vero, per cominciare a esprimere pure emozioni, e a trovare essa stessa nuove forme di linguaggio.
Quindi, come si conviene, partiamo dal primo autoscatto di cui si abbia notizia, ovvero quello di Robert Cornelius (1839), che a vederlo nemmeno ci si crederebbe. Idea geniale di questo fotografo americano che, per primo, pensò – ben quattordici anni dopo la prima fotografia della storia – non solo di ritrarre una persona, ma se stesso. Ed è così moderno, addirittura nel taglio di capelli e nel bavero della giacca rialzato da sembrare un Teddy Boy degli anni ‘50. Quanti di noi, nati nell’era della fotografia analogica, non si sono fotografati allo stesso modo?

Il primo a usare la fotografia per ingannare e provocare, fu invece Hippolyte Bayard, che nel 1840 si ritrasse in posa da annegato, probabilmente per polemizzare con l’Accademia Reale e Daguerre che, per inventare la dagherrotipia, si basò sulle ricerche dello stesso Bayarde.

Di Nadar (1820-1910), pseudonimo di Gaspard-Felix Tournachon, ricordiamo la serie di ritratti dei maggiori poeti, pittori e artisti dell’epoca (Baudelaire, Sarah Bernardt, Gioacchino Rossini, Bakunin, Corot, Gustave Courbet, Victor Hugo, Oscar Wilde, Franz Liszt, Delacroix…). Suo inoltre, lo studio in Bouleverd des Capucines, in cui si tenne la prima mostra dei pittori impressionisti nel 1874. Geniale l’autoritratto rotante del 1865.

Tecnica che Eadweard Muybridge (1830-1904), portò all’estremo con la cronofotografia, strumento utilissimo per studiare il movimento di uomini e animali. Per esempio, prima dei suoi studi fotografici, non era ben chiaro quali fossero i reali movimento di un cavallo al galoppo. Di lui non ho trovato alcun autoscatto vero e proprio, ma una cronosequenza sul movimento umano in cui lui stesso è il soggetto ritratto. In fondo, pur sempre un autoscatto multiplo.

Edvard Munch ritorna anche in questa sezione dedicata all’autoscatto con un’immagine del 1908-1909 scattata alla Marat, la clinica di Copenhagen in cui era ricoverato a causa di problemi nervosi e da dipendenza dall’alcool. L’angoscia che leggiamo nel suo sguardo, nell’impossibilità di tenere ferma la testa anche per pochi secondi, la mano che pizzica il ginocchio, le dita dei piedi contratte, uno degli autoscatti che pescano più a fondo nell’animo umano.

Altrettanto drammatico, ma per altri versi, l’autoscatto della granduchessa
Anastasija Nikolaevna Romanova (1901-1918), datato 1914, in cui una ragazzina tredicenne in ginocchio su una sedia davanti allo specchio è ancora ignara della fine sua e di tutto quanto faceva parte della sua vita, solo quattro anni più tardi. Lo scatto, destinato a un’amica o un’amico, era accompagnato dalla seguente annotazione: “Ho scattato questa foto di me stessa guardando allo specchio. Era molto difficile perché le mie mani tremavano”. Commovente.

In teoria, se quello di Robert Cornelius viene accreditato come il primo autoscatto della storia della fotografia, recentemente è saltata fuori un’immagine che – se vera – si potrebbe definire come il primo selfie mai scattato. La foto proviene dagli archivi dello studio fotografico Byron Company di New York ed è corredata anche da un backstage – datato dicembre 1920 – che illustra in che modo è stato ottenuto lo scatto. I soggetti sono gli stessi fotografi dell’agenzia, che appaiono molto soddisfatti e compiaciuti. Non posso dar loro torto, anche se quando direte: «Se incontrassi chi ha inventato il selfie…» saprete già la risposta.

Tutti abbiamo negli occhi le bellissime immagini di Marilyn Monroe sulla spiaggia di Santa Monica, avvolta solo in un maglione. Quasi senza trucco, naturale indifesa, molto diverse da quelle scattate nel 1949, cioè tredici anni prima. Se possibile è ancora più bella, più umana. Le ha scattate Edward Weston (1886-1958), fondatore insieme ad Ansel Adams e altri del Gruppo f/64. Eccolo in due autoritratti, uno giovanile, lo sguardo aperto, carico di ottimismo, e un secondo in età matura, nel quale sembra essere protagonista la macchina fotografica, che appare più nitida, presente.

Man Ray (1890-1976), gode la fama di essere stato il primo fotografo surrealista, utilizzando sistematicamente la tecnica della solarizzazione. Tecnica che ritroviamo in alcuni dei suoi autoscatti che, in questo caso, non tendono alla ricerca delle profondità interiori, ma una ricerca artistica vera e propria che si discosta dalla pura tecnica fotografica.

André Kertész (1894-1985), vuole lasciare di sé solo l’essenza, l’ombra, che, come in Peter Pan, vive di vita propria, tende a scappare, a vivere una vita altra. Come nelle sue famose distorsioni, per le quali utilizzava uno specchio deformante da circo per ricercare le possibilità di deformare il corpo umano attraverso la luce.

Erwin Blumenfeld (1897-1969) si potrebbe definire uno dei maggiori fotografi di moda per Vogue e Harper’s Bazaar negli anni a cavallo fra il 1940 e 1950. Sua la foto della modella Lisa Fonssagrives in bilico sulla Tour Eiffel in un servizio per Vogue France del 1939, oppure quei nudi femminili solarizzati avvolti in leggere tele di cotone. Certo, in base all’autoscatto del 1932 in cui si ritrae completamente nudo, con la macchina fotografica a nascondere quello che solitamente si nasconde, il tipo appare un po’ strano. Tanto quanto il modo che scelse per morire. Malato di cuore, decise non non assumere più alcun medicinale e di correre avanti e indietro a perdifiato per Piazza di Spagna a Roma, fino a morire d’infarto tra le braccia della sua amante Marina Schinz. Un solo dubbio: chi sarà la persona alle sue spalle?

Prima, ma non unica fotografa – modella e disegnatrice di moda – di questa serie, Renata Bracksieck (1920-1929), è una figura misteriosa. Sappiamo solo la data di nascita e morte, che aveva un salone di moda a Brema e niente altro. Ma in sostanza ciò che interessa sono i suoi autoscatti – per questione di spazio riorganizzati in orizzontale rispetto al formato originario verticale – che rimandano a una donna bella, spigliata, elegante, che sa stare davanti all’obiettivo.

Mi viene naturale accostare Renata alla coetanea Leni Riefenstahl (1902-2003). La geniale quanto diabolica attrice, regista e fotografa che tanto contribuì alla costruzione del mito nazionalsocialista di Adolph Hitler, del quale era una stimata amica. Parlare di lei e del suo innegabile talento, scindendolo dalle sue idee politiche mi risulta piuttosto difficile. Difficile liquidare come spazzatura sotto il profilo artistico e tecnologico film come Il trionfo della volontà e Olympia, ma purtroppo il soggetto risulta così odioso che è impossibile giudicarli solo come un prodotto artistico di una regista comunque estremamente capace. Il suo autoscatto utilizza fra i primi una fotocamera a telemetro – probabilmente Leica – che nasconde una parte del viso, e anche l’unico occhio visibile è chiuso, quasi a non voler vedere ciò che il nazismo – grazie anche al suo contributo – ha causato al mondo.

Tutt’altro discorso per la conterranea e quasi coetanea Ilse Bing (1899-1998), che scelse invece Parigi come terra d’adozione. Scelta che le portò decisamente fortuna, tanto da essere soprannominata “Regina della Leica”.
Nel suo autoritratto del 1913, l’uso dello specchio è diventato un’icona della fotografia modernista, che la stessa Bing ripropone in un’immagine successiva – con la stessa Leica – del 1986.

Otto Umbehr (1902-1980) perse l’occhio sinistro durante il periodo nazista, durante il quale lavorò come fotoreporter. Lavoro che andò completamente distrutto durante un bombardamento su Berlino nel 1943. Studiò alla Bauhaus di Weimar, dove conobbe Wassily Kandiski. Ecco perché negli autoscatti ci guarda attraverso il mirino della Leica nascondendo parte del viso. Forse anche per questo risulta estremamente ermetico e chiuso in se stesso.

Quanto amo Weegee (Arthur Fellig, 1899-1968) e la sua Speed Graphic! Emigrato negli Stati Uniti nel 1910 – d’altronde quanto deve l’America a registi, attori e artisti europei emigrati a causa dell’antisemitismo? – dopo innumerevoli lavori di ogni tipo si dedica all’attività di fotogiornalista freelance di cronaca nera. Fotografa di tutto e, grazie a una radio sintonizzata sulle frequenze della polizia, arriva spesso sui luoghi di delitti e reati prima ancora delle forze dell’ordine. Il suo stile è inconfondibile, notturno, a volte impietoso altre colmo di tenerezza e rispetto. Se il cinema noir americano è così radicato nel nostro immaginario è anche merito suo. I suoi autoscatti sono come ce lo immaginiamo: sigaro o sigaretta d’ordinanza, l’occhio furbo, Speed Graphic e flash a bulbo. Un’icona.

Agli antipodi dello stile fotografico di Weegee c’è Ansel Adams (1902-1984), coi suoi meravigliosi panorami americani in bianco e nero. Con Edward Weston, fu tra i fondatori del Gruppo f/64, numero che rappresenta la minima apertura di diaframma, che permette di ottenere la massima profondità di campo. nei suoi primi autoscatti appare come un simpatico van Gogh, con barba e cappello, mentre nel 1958, come Kertész, si rappresenta attraverso la sua ombra sullo sfondo di un paesaggio maestoso. Non un’ombra che sfugge, ma che invece sembra salutarci.

Andreas Feininger (1906-1999), preferiva invece i paesaggi urbani di Manhattan, forse per via della laurea in architettura e l’influenza di Le Corbusier, con cui lavorò prima di dedicarsi alla fotografia. I suoi autoscatti sanno di Bauhaus, razionalismo, luci da cinema d’avanguardia tedesco alla Fritz Lang, che tanto contribuì alla nascita del cinema poliziesco americano. Neri pieni, profondi, luci drammatiche e, in qualche caso, il viso che si fonde alla fotocamera.

Sarà capitato a tanti di vedere quelle foto in cui, personaggi famosi come Salvador Dalì, Marilyn Monroe, Dean Martin e Jerry Lewis, compresi anche Richard Nixon, i duchi di Windsor e il padre dell’atomica Oppenheimer, saltano sul set, rimanendo sospesi in aria, spesso ridendo e svestendosi di quella maschera che il salto impedirebbe loro di mantenere. Un trucco, un semplice artificio che Philippe Halsmann (1906-1979) metteva in atto a ogni fine seduta fotografica. È lui che ha fotografato le maggiori icone del nostro tempo, sempre lui quello della foto di Albert Einstein con la lingua fuori. Eccolo allora nei suoi autoscatti, una testa nel buio, o che salta insieme a Marilyn.

Henri Cartier Bresson (1908-2004) è stato un pioniere del fotogiornalismo, fautore dell’attimo fuggente – che poi spesse volte era invece preparato – anche se ciò non toglie l’estrema sensibilità e il grande gusto della composizione di questo fotografo francese. Non bastasse, fu tra i fondatori, insieme a Robert Capa e altri, della famosa agenzia Magnum. Malgrado tutto questo, nei suoi autoscatti appare come un uomo mite, quasi schivo, la fotocamera usata come fosse uno schermo verso il mondo, come se anche lui stesso dovesse apparire ripreso a sua insaputa, come nelle fotografie in cui è riuscito a ritrarre così bene gli attimi delle persone comuni.

Willy Ronis (1910-2009), ha rappresentato la Francia e i francesi come pochi altri. Bambini con la baguette sotto il braccio, o con le bottiglie di vino che la mamma ha mandato a comprare, le delicate brume parigine, le commesse dei negozi, le signore ai tavolini dei bistrot, gli amanti illuminati dalla flebile luce di un fiammifero, operai che fumano una sigaretta all’uscita dal lavoro. Una poesia leggera, di delicati nudi femminili, di gambe nervose, di giochi di ragazzi. Europeo quanto lo sappiamo essere solo da questa parte dell’oceano, intellettuale, sensuale, ma anche sensibile alla vita quotidiana.
Si ritrae come un lampione, con luci in entrambe le mani, riflesso nello specchio della sua casa, un’espressione come a dire: «Se proprio devo fare questa cosa, voglio che sia diversa da tutte le altre».

Dall’altra parte dell’oceano c’è Gordon Parks (1912-2006), regista, attore e fotografo statunitense, unico afroamericano di questa lunga carrellata. Impegnatissimo sul versante politico, durante la collaborazione con la rivista Life, fotografò Malcom X, Muhammad Alì (questa è una delle più belle foto che abbia mai visto del pugile americano) e Stokely Carmichael. Altrettanto famoso lo scatto intitolato American Gothic, in cui una donna delle pulizie con scopa in mano è fotografata sullo sfondo della bandiera americana. Come regista diresse nel 1971 il celebre Shaft il detective, con l’indimenticabile colonna sonora di Isaac Hayes. I suoi autoscatti sono come lui: senza fronzoli, duri come la roccia.

Ah, le donne di Helmut Newton (1920-2004), quanto mi sono piaciute e quanta forza hanno ancora oggi. Lisa Lyon, Cindy Crawford, Nadja Auermann… la serie dei Big Nudes, le pubblicità per Chanel, Versace Yves Saint Laurent. L’erotismo patinato ma mai banale che esplose durante gli anni ‘80. Un fotografo che non esita a mettere in piazza anche se stesso, come nell’autoscatto del 1973 in cui si fotografa allo specchio del bagno dell’ospedale durante un controllo in seguito all’infarto subito nel 1970, o in quello durante le sessioni per i Big Nudes, o ancora, sdraiato sul letto, completamente coperto dal corpo di una modella.
Un uomo fortunato.

Soggetti completamente diversi da quelli di Diane Arbus (1923-1971) che predilige la diversità e la provocazione. Famose la foto delle gemelle (Identical Twins, 1967) o quelle dei freaks dell’Hubert Museum sulla 42ma strada a New York. Ed è fantastico il suo autoscatto del 1945, nel quale si ritrae con le sole mutande e incinta – molto ma molto prima che infuriasse la moda da parte di attrici e cantanti di farsi fotografare col pancione – tanto da domandarci: «Ma come faceva una creatura all’apparenza così dolce a calarsi in un immaginario che sembra così distante da lei?».

Ancora più distante dai temi di Diane Arbus è Richard Avedon (1923-2004). Una vita interamente dedicata alla fotografia di moda, senza mai uno scarto, un ripensamento, un’uscire dai binari patinati e un po’ stupidi di un genere di fotografia che non è per niente facile. Se i suoi autoscatti sono stati realizzati per trasmettere qualcosa, non vedo altro che vanità, futilità, narcisismo. Non li avrei nemmeno inclusi, se non fosse che riescono a trasmettere così bene tutta quella serie di valori che ho sempre disprezzato.

L’olandese Ed van der Elsken (1925-1990) è un regista e fotografo, che ha svolto la sua attività fra la Seconda Guerra Mondiale e gli anni settanta dei figli dei fiori, l’amore libero e la cultura musicale. Le sue foto sono strane, piene di vita, di persone, di strade, di donne, d’amore, di baci. Non è molto conosciuto – anche se lo meriterebbe – e dev’essere stato un tipo piuttosto originale, almeno guardando i suoi autoscatti, specialmente quelli a letto con una ragazza di cui non sappiamo niente. Ben diverso da quello giovanile, tra il bohemien e il mood. Strambo, simpatico, divertente.

Di Vivian Meier (1926-2009), ne abbiamo già parlato qui, ma senza soffermarci sugli autoscatti, che sono tanti, spesso sofisticati nella ricerca tecnica e molto originali. Tanto per riassumere brevemente, Vivian Meier è stata per tutta la vita una bambinaia che, nel frattempo, ha scattato decine di migliaia di bellissime immagini che non ha mai mostrato a nessuno. Scoperta per caso da John Malof, che acquistò a un’asta dei bauli pieni di sue foto, la sua vita è stata raccontata nel documentario Alla ricerca di Vivian Meier.
Da allora non faccio che apprezzare sempre più il suo lavoro e, anche adesso che stiamo parlando di autoscatti, riesce ancora a sorprendermi per la raffinatezza delle scelte stilistiche. Peccato che anche queste immagini non facciano che rendere ancora più fitto il mistero sulla personalità di questa donna così ritrosa e discreta. È possibile vedere una sua mostra alla Fondazione Forma Meravigli di Milano fino al 31 gennaio 2016.

Sembra incredibile, ma di qualunque cosa si parli salta sempre fuori lui: l’inossidabile Andy Warhol (1928-1987), che, a distanza di tanti anni, riesce sempre a meravigliarmi per la lungimiranza artistica. Lo so, ho un debole per lo stralunato artista con la parrucca bianca, ma come non potrei guardando i suoi autoscatti travestito da Drag Queen o mentre mangia una banana?

Penso che ormai sia un fatto risaputo che Stanley Kubrick (1928-1999), il regista di 2001 Odissea nello spazio e Shining, iniziò la sua carriera come fotografo. E, come sempre accade quando si parla di artisti poliedrici come Kubrick, Andy Warhol o David Lynch, bisogna inevitabilmente constatare che sono bravi, qualsiasi cosa si mettano in testa di fare. Per esempio, l’autoscatto del 1946, con la fotocamera tenuta sotto al mento, è diventato quasi virale nella replicazione da parte di ogni aspirante fotografo. Come pure trovo geniale quello realizzato sul set di Shining, nel quale Jack Nicholson si fa presenza eterea e inconsistente eppure incombente.

Jeanloup Sieff (1933-2000), ha scelto due modi inconsueti per trasmettere la sua immagine. Nel primo – e forse il più originale – è di spalle, ma non è un rifiuto al dialogo, perché nel frattempo gira la testa e rivolge lo sguardo all’osservatore, con un contorcimento del braccio che scatta la foto. Nel secondo, è completamente travisato da un mantello e un barbone finto, circondato dai “ferri” del mestiere. Anche lui, come Avedon, è un fotografo di moda, ma non solo. I suoi ritratti, come ad esempio quelli di Jane Birkin e Serge Gainsbourg, Catherine Deneuve, Twiggy e molti altri, hanno quella sensibilità in più, quel tocco di umanità che in Avedon mancava. Ma sono i nudi quelli che hanno conquistato generazioni di emulatori. Sottilmente erotici, impeccabili, raffinati.

Lee Friedlander (1934) non è mai stato molto famoso, però mi piace, tanto quanto lui piace a se stesso. Almeno questa è l’impressione che ho ricavato guardando i suoi autoscatti. Mi piace come fotografa la metropoli, le persone, i musicisti, l’uso della luce.
Strana gente i fotografi. È opinione comune che spesso non abbiano rispetto per la vita altrui, impegnati solo a cercare lo scatto perfetto, quello dove anche la sofferenza acquista una sua bellezza intrinseca. Ma non è così, un fotografo è un fotografo sempre. Ogni cosa che vede è un soggetto, ogni taglio di luce una possibile suggestione, ogni occasione è buona per prendere in mano la macchina fotografica. Ne sono la dimostrazione Helmut Newton, che non esita a fotografarsi appena prima o appena dopo un elettrocardiogramma, con ancora tutti gli elettrodi appiccicati alla sua nudità, e Lee Freelander, che non perde l’occasione per fotografarsi in un letto d’ospedale, reduce da un intervento chirurgico. Quindi non si tratta di insensibilità, è che si finisce per ragionare come una fotocamera, con in mente il risultato di ogni scatto fatto o perduto.

Di David Bailey (1938), non posso fare a meno di riportare l’autoscatto che l’ha reso icona vivente della swinging London e che ha suggestionato anche il regista Michelangelo Antonioni per il suo Blow Up. Poco più che un ragazzo, anche se molto fortunato, ma lo sguardo è sicuro, l’abbigliamento studiato, le luci perfette.

Nobuyoshi Araki (1940), ama frequentare i bordelli. Anzi, tutta la sua carriera di fotografo l’ha trascorsa nei peggiori bordelli di Tokio. Arrestato varie volte con l’accusa di oscenità, ha pubblicato oltre 350 libri in cui il tema del sesso è predominante. Non è patinato come Newton o Sieff, anzi, il suo è un sesso esibito, crudo, disturbante, senza nessuna intermediazione. E proprio con questo sembra giocare nei suoi autoscatti, irriverente anche verso se stesso.

Erotismo anche quello di Robert Mapplethorpe (1946-1989), ma di stile e tendenza diametralmente opposti. Un ragazzo che, prima di scoprire la sua omosessualità e viverla sempre al limite, visse diversi anni con Patty Smith – periodo a cui appartengono alcuni dei suoi autoscatti – tuffandosi successivamente anima e corpo in ambienti dell’omosessualità malfamata e violenta di cui ha saputo raccontare con grande stile anche i momenti più bassi. Una personalità fragile, trasformista, dolce e violenta allo stesso tempo. Come nei suoi autoscatti.

Lucy Hilmer invece, è una fotografa quasi banale, che ha rivolto la propria attenzione verso se stessa, la sua famiglia, i suoi affetti, ai quali ha dedicato tutta la sua carriera artistica. Ciò che mi interessa di lei è il progetto Birthday Suits, iniziato in tempi non sospetti – cioè intorno agli anni ‘70 – e che nella sua semplicità restituisce il senso del tempo, dell’invecchiamento, della vita che si consuma. Si tratta di una serie di autoscatti in cui la fotografa indossa un paio di mutandoni e niente altro – abbigliamento che ricorda molto l’autoscatto di Diane Arbus – effettuati a intervalli regolari, ovvero a ogni suo compleanno.

Autoritratti concettuali quelli di Cindy Sherman (1954), artista e fotografa statunitense che, attraverso una serie di autoscatti, rappresenta se stessa in infinite variazioni dello stereotipo femminile nel mondo dei media. Quindi non un modo di rappresentare il proprio mondo interiore – che però in un modo o nell’altro a volte emerge inconsciamente – ma una ricerca artistica a tutti gli effetti.

Nick Veasey (1962), estremizza ulteriormente la ricerca dell’io interiore attraverso l’autoscatto o l’autoritratto, fino a svuotarlo – o trasportarlo in un piano ulteriore – di ciò che fino a ora è stato. Se offrire la propria immagine al mondo significava spogliarsi di tutti gli orpelli e le maschere per offrire la propria immagine nuda e cruda – a volte anche in senso letterale – all’osservatore, cosa c’è di più intimo e profondo della propria immagine radiografica? Eccolo allora Nick Veasey, così spogliato da ogni sovrastruttura da apparire trasparente e quindi, in fondo, inesistente.

Chiuderei questa carrellata con due immagini emblematiche di ciò in cui si è trasformato in questi ultimi anni l’autoscatto classico. Un selfie da scattare convulsamente in ogni occasione, vuoto di significato, inutile grido disperato di chi non esiste se non attraverso la propria immagine postata nell’intangibilità di qualche impulso elettronico, fino a quando, la singolarità delle macchine – che ormai sembra essere appena dietro l’angolo – comincerà a scimmiottare il suo creatore.
Ecco quindi l’astronauta Aki Hoshide, con il suo selfie in assenza di gravità, e, molto più inquietante per gli scenari che prospetta, il selfie del rover Curiosity, direttamente dalla superficie marziana.
E poi non dite che non vi avevamo avvertito…


PS: E questo sono io, più o meno nel 1982, pieno di speranze e tanta voglia di fare…