Il Simbolismo.
Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra.
Palazzo Reale Milano fino al 5 giugno

Si potrebbe dire “gli artisti felici si rassomigliano tutti. Ogni artista infelice, invece, lo è a modo suo”, parafrasando l’incipit del capolavoro tolstojano Anna Karenina. Non che sia indispensabile essere infelici per diventare un genio assoluto, come insegnano il placido Giotto oppure il gaudente Raffaello. Certo che un po’ aiuta. E che, specie nei periodi di crisi, di cesura, di cambio di paradigma, in campo artistico confonde, sviluppando un’infinità di generi, di possibilità, di prospettive, che s’aggrovigliano l’una nell’altra, s’incagliano in mille angoli distorti, s’intricano in rivoli che fiumi non potranno mai diventare.
Lo dimostra appieno la mostra aperta fino al prossimo 5 giugno al Palazzo Reale di Milano, proprio di fianco alla Madonnina, intitolata Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra. La sfilata di circa 150 opere provenienti da musei e collezioni di mezza Europa ci immerge nel clima culturale e sociale di un periodo storico di mutamento dell’estetica artistica continentale, quello di frattura tra l’impressionismo e le grandi avanguardie.

Fernand Khnopff, Carezze (L'Arte), 1896
Fernand Khnopff, Carezze (L’Arte), 1896

È il primo momento di grave crisi della fiducia indiscussa nella scienza e nei suoi progressi salutari e portatori di benefici per tutti. Non il rifiuto della modernità, ma la fase più frustrante che la crescita induce, giusto un attimo prima della catastrofe (che puntualmente si verificò con la mattanza del 1914/18), dettata dall’impossibilità di avere punti di riferimento di fronte alle incertezze sentenziate da Charles Darwin, con l’uomo bruscamente privato del ruolo di prim’attore nell’evoluzione, e da Sigmund Freud, che mostrava tutti come incapaci di dominare le pulsioni interiori.
Il simbolismo è più “sensazione” che movimento. È la risposta senza le giuste rime al positivismo e al materialismo, che avevano prodotto la svolta epocale della rivoluzione industriale. È l’arte del pre-disastro, dell’inafferrabilità del certo, del vagare senza meta in territori senza fine con intenti senza costrutto. Per questo le 19 sezioni tematiche dell’esposizione introducono a mille contraddizioni e ad altrettanti scontri stilistici.
Che c’azzeccano i “polipi difformi” di Odilon Redon con il polittico Le vergini savie e le vergini stolte di Giulio Aristide Sartorio? Cosa il post-liberty di Wilhelm List e di Giorgio Kiernek con il pre-surrealismo di Félicien Rops e di Gustave Moreau? Oppure il piatto rigore dei nabis con la ridondanza decorativa dell’immaginifico Vittorio Zecchin? Oppure ancora le enormi e magnifiche tele del ciclo Il poema della vita umana, che vogliono essere dei trompe-l’oeil di bassorilievi classici, ancora di Sartorio con le pennellate lunghissime dei divisionisti Gaetano Previati e Giovanni Segantini? Oppure i colori ridondanti di Gaetano Chini con gli ironici bozzetti in china di Alberto Martini?

Georges Lacombe, Il mare giallo, Camaret, 1892
Georges Lacombe, Il mare giallo, Camaret, 1892

Certo tutti vogliono raffigurare i mostri (e anche le sensuose bellezze) creati dal sonno della ragione, tutti rivolgono lo sguardo dalla parte opposta, verso l’interno, rispetto ai cercatori dell’impressione, tutti sono inquieti e turbati come gatti finiti per sbaglio – dopo un tragitto che loro non è appartenuto – in mezzo all’autostrada di un sentire arcano e misterioso, ma il simbolo e l’illusione non tracciano mai (potrebbero mai farlo?) un filo narrativo unitario.
A Palazzo Reale siamo così di fronte alla spezzettata rappresentazione di un “pensiero debole”, che, seppure voglia proporci, “penetrando anche nel territorio dell’inconscio, i grandi valori universali dell’umanità: il senso della vita e della morte, la fantasia, il sogno, il mito, l’enigma, il mistero”, come afferma Fernando Mazzocca, ci appare miscuglio tra decadenza agonica e genialità lunatica, tra stimolanti intuizioni e fascinose superficialità, tra elegiaci rimpianti e rancorose cadute. Una materia volubile, che non ha avuto in sorte di diventare narrazione epica, come fosse una tavola imbandita di frutta lucidata con la gommalacca ma con solo rare tracce di primi e secondi piatti.

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