Il Club
di Pablo Larrain
con Roberto Farías [I], Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking
Voto 8
In apertura il film ci dice (Genesi) che Dio separò la Luce dalle Tenebre. A La Boca, Cile, mare davanti, niente dietro, luce perennemente grigia alla fine del mondo, c’è una villetta, con una suora che accudisce quattro preti: uno intronato, uno alcolizzato (spretato perché vendeva figli di poveri a famiglie ricche), uno ex cappellano militare (con tutte le complicità che ne derivano e armato), uno emarginato perché omosessuale represso e dichiarato (e addestra cani da corsa). Anche la suora è lì per sorvegliare, punire e meditare su un momento della sua vita. Arriva il quinto della casa, e subito un vagabondo ubriaco si pianta davanti alla villetta e inizia una litania di ricordi pedofili in un linguaggio decisamente esplicito, e il prete accusato si suicida. Arriva infine un gesuita alto, bello, giovane colto, psicologo e inquisitore, e incaricato di eliminare queste case in cui spariscono gli ecclesiastici censurati dalla Chiesa. Si scatena lo psicodramma. Il Club è un gran film spesso insostenibile e durissimo (la violenza del linguaggio ridicolizza la violenza fisica marginale, che pure c’è: è una via crucis alla fine) ma non è un film antiecclesiastico, anche se al confronto il temuto Spotlight sullo scandalo della pedofilia a Boston va giù come un bicchier d’acqua. Questo è cinema da America Latina, chirurgico e verticale come tutti i film di Larrain (No, Tony Manero, Post Mortem). Sceglie un tema, entra come un bisturi, opera.