Mi veniva a trovare Iggy Pop.

Aprivo la porta per via di un ticchettio sommesso proprio mentre stavo scrivendo.

Non ci sono idee ficcanti, stavo pensando, è tutto ancora così poco vivo e sonoro. Avevo inseguito e poi smarrito un filo sottilmente gustoso, come perdere il piacere sul più bello. Un senso di vuoto si impadroniva di me e cercavo la chitarra più amara, la più aspra che io avessi sentito suonare in me.

Vorresti tanto che quella chitarra suonasse alla sinistra del tuo essere, cattiva e puntuale, pronta a dire con semplicità tutto il tuo perduto essere. Ma è un fatto di musica o cos’altro. Non so, non lo sapevo più con esattezza.

Sento questo ticchettio e d’istinto, follemente, ripenso alla mia amata gatta, che un tempo grattava con la zampetta unghiata e dolcissima alla base della porta per indicarmi la sua ferma intenzione di rincasare. Una volta dentro si imponeva di venirmi addosso perché io le dessi retta. Era assai arrogante e guai se non l’avessi fatto, se ne sarebbe risentita molto.

Per un decimo di secondo il pensiero di lei mi aveva angustiato in profondo, perché da quando non c’era più, oppure era chissà dove, nel vago di una vita profonda che noi possiamo solo desiderare di intuire, nessuno più commetteva l’assurda stranezza di grattare alla mia porta alle quattro del mattino.

Ma mi riprendevo subito, per via del ticchettio, che insisteva, lo avevo risentito. Dio santo, penso, o lei è tornata dalla sua tomba sotto gli alberi oppure qualcosa ticchetta alla mia porta.

Quindi senza pensare mi ero alzato ed ero andato ad aprire.

A dire il vero nel farlo devo anche essermi sentito alquanto stupido e persino incauto, giacché qualunque cosa potrebbe bussare alle quattro di notte alla porta di un’abitazione sospesa nel niente come è qualunque abitazione quando ci sentiamo perdutamente, oggettivamente soli al mondo. E io così ero. Solo e sospeso con tutta la mia dimora sul niente. Ci deve essere un dipinto di Magritte che lo illustra, pensai, e nel breve tragitto tra il tavolo e la porta mi dicevo: sono davvero nel niente.

Allora incauto apro la mia navicella, e un individuo dal volto scavato, con due ciocche biondogrigie che gli pendono ai lati della fronte, e un’espressione piuttosto sfrontata in un inglese netto mi chiede gentilmente di entrare.

Ma certo che ti permetto di entrare. Non ho mai temuto il prossimo, e perché dovrei farlo ora, in una notte tanto estrema quanto questa? Cosa si legge su giornali interessati a fare notizia? Assassinato dalla persona alla quale aveva aperto spontaneamente la porta, nessun segno di effrazione, la vittima conosceva bene l’aggressore e non riteneva di avere nulla da temere. Balle, riflettevo in un lasso di tempo mentale non calcolabile. La vittima può benissimo essere una persona come me, votata all’accoglienza, e oltre ad essere incapace di concepire che qualcuno possa avere voglia o un qualunque strambo interesse di aggredirti, potrebbe nel profondo desiderare che vi sia una certa fine, infine.

L’uomo non certo alto ma dall’aria potente e un lieve trascinamento della gamba destra, si infilava nella mia tana torcendosi un tantino di lato, siccome il mio ingresso non è poi così ampio, nella galanteria di non volermi urtare nel passare accanto alla mia perplessità.

Era un uomo senza una precisa età, la cui gentilezza speciale faceva a pugni col suo sguardo, e con l’aria da rimbalzato da un’altro pianeta su questa porzione di mondo che era il mio appartamento, mio, di me che stavo con la testa ancora immersa in una narrazione che veniva a fatica, ma lo stesso ne uscivo grondante come da una immersione.

– Ma io non dovrei essere un musicista? Chiedo al mio ospite nella confusione che mi si addensa nel pensiero.

– Yeah, you are, dice l’uomo.

– E un musicista non dovrebbe avere a che fare con la musica, non dovrebbe starsene, che ne so, seduto al pianoforte, oppure dolorosamente sovraccaricato da una chitarra elettrica, di quelle che spaccano le spalle e fanno sentire le dita insanguinate?

– Sure. That’s what you say, not what you think.

– E a cosa penserei mai io, messo in questo modo, infilato fino a questo punto in una crisi da non sapere neppure con chi sto parlando?

– I don’t know. You don’t know. You’re not that Kind of person. You know what I mean.

– Vero, lo riconosco: io non mi riconosco in niente di preciso. Perché dovrei?

– If it’s possible, I’d like to drink some milk. Milk.

La mia gatta non ne beveva, preferendo la panna montata, che era precisamente la sua coppa-gelato. Gliene scaricavo una porzione a spirale appuntita, proprio come un gelato, nella coppetta d’acciaio che all’origine avrebbe dovuto essere il mio reggi-uovo, ed era poi diventata la sua coppetta di dessert. Qualcosa che si avvicinava a un lusso felino. Se la godeva, a occhi chiusi, poi mi mandava al diavolo a suo modo e spariva in cima alla scala.

Comunque il latte c’era, ne tengo sempre, non so nemmeno il perché, dal momento che non lo bevo.

Ma per essere ospitale come credevo di voler essere, ne versavo due bicchieri abbondanti.

Dicono che il latte calmi, se bevuto la sera, tranquillizzi. Probabilmente lo si crede una reminiscenza d’infanzia, un ritorno alla madre.

Fatto sta che lui lo tracannava d’un fiato nello spazio di tempo che io impiegavo solo a sorseggiarlo.

– Good, sussurrava per sé e schioccava le labbra. Si guarda intorno e per prima cosa osserva il mio pianoforte, quindi nota la chitarra abbandonata sul divano, poi gira lo sguardo ancora su di me e scuote la testa in segno di approvazione. Aveva un giubbino di pelle rosso e un po’ abbondante, dal quale emergeva legato al collo un foulard giallo e blu, di seta fine, e facendo scorrere la cerniera veniva fuori che sotto portava solo una canottiera gialla su una pelle vissuta. Poi si girava verso le pareti, studiando i dipinti che vi prendono polvere da tempo.

– Che dici?, gli chiedevo come se sapessi cosa gli stavo chiedendo e come se lui fosse disposto a capirmi, e lui diceva:

– I like them so much. – Poi cercava altre parole e aggiungeva: – I dont’t like this, but I love that, and that, too. I like ’cause you’re not a painter, you’re not a musician, not a writer. So you Are. – Silenzio. – May I? – E si versava da sé altro latte.

– Non è esattamente calda come dovrebbe, si capisce c’è confusione, di sopra devono esserci sparsi sul letto tutti i saggi di fisica che ho raccattato ovunque mi sia stato possibile, sai, non è che io li legga, ma mi danno comunque dei cenni, mi dicono lo stesso qualcosa. Anche quella monografia su Céline, ad esempio, credo di averla solo sfogliata, ed è successo parecchi anni fa, ma averla con me mi dà qualcosa, tu capisci, è sempre qualcosa la vicinanza del pensiero, offre spunti al pensiero.

– It’s true, I think so about Nietzsche, dice e ancora una volta scandisce molto nettamente “nnicce” allargando la bocca e battendo una volta le mani.

– Beh, sarai stanco, gli dico, e lui scuote la testa come soppesando la mia affermazione e convenendo.

– Devi darmi un attimo, dovrò liberare il letto.

– Right, may I come?

– Vieni, ti mostro il resto, ma c’è poco da esplorare. – Salite la scale e giunti al letto, si perdeva nella costellazione di corpi intrecciati che popolano i miei dipinti, inclinava la testa, la allungava, passando da uno all’altro.

– Quello con tanti corpi che si penetrano l’ho appeso lì con mio padre, pensa, diversi anni fa, e la prima volta che l’ho esposto credevo sarei stato censurato. Invece lo hanno apprezzato anche gli anziani, ero in svizzera, e c’era una processione di nonnetti e vecchiette che apprezzavano la mia rappresentazione dello scambio universale.

– Me, too, dice lui asciuttamente, cominciando già a prelevare dal letto i tomi che lo affollavano. Di qualcuno sbirciava persino il titolo: “La bellezza imperfetta dell’universo”, ad esempio, che letto con pronuncia americana non mancava di diventare subito una cosa deliziosamente ridicola: – Lo belezi unporfetti deluniverzzo.

Insieme sfolliamo i libri di fisica dal mio letto, metto in funzione una stufetta ad aria, gli indico il bagno e lui si getta in canottiera su quello che è sempre stato il mio letto, il mio mondo nascosto, l’alcova, il luogo di sofferenze indicibili sempre svanite al mattino con la luce.

– Se c’è un posto dove dovrebbero stare dei libri di fisica, quello è il letto. Spero ti stia bene, io l’ho sempre molto amato.

– Perfect, mi dice tendendomi infine la mano. E lì mi accorsi che non era più la mano di un uomo giovane e forte quale appariva nell’insieme, ma quella di uomo, in qualche misura nuova, anziano.

– James, disse con voce fonda.

– Carlo, gli risposi mentre già ci stringevamo la mano, e io aggiungevo che mi era necessario ora tornare a lavorare.

– Right, see you.

Così già scendendo le scale, senza nemmeno sapere perché me ne andassi, gli chiedevo:

– A proposito, solo per curiosità: chi sei?

Da sdraiato si stringeva nelle spalle nel dire:

– I’m a person, maybe I’m a Cat. I don’t know, I’m Something. I’m nothing but my name.

Sempre scendendo le scale rivedevo dall’alto la mia postazione di scrittura emanare luce azzurrata con le idee sospese, e accanto i due bicchieri all’interno ammantati dall’alone del latte.

Allora scendendo ancora, e ancora, pensavo che sì, è vero, anche per me era il momento di dormire.

E un sonno densissimo, come latte, come panna, era venuto a prendersi il meglio di me e a portarselo da qualche parte, chissà dove, e io sì vagavo, vagavo in questa densità, senza pensare al viaggio, o al tempo, alla fisica, alla musica, la narrativa, a chi ho amato amare e chi ha amato amarmi, e scivolavo lento, lentissimo in questa densità.

Così, facevo solo in tempo a credere di pensare: se solo sapessi scriverlo.

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

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