Esattamente un mese fa un colpo di pistola poneva fine alla vita non più giovane ma ancora troppo breve di Keith Emerson. Un ultrasettantenne rimasto eternamente ragazzo per noi, che negli anni Settanta guardavamo rapiti quei filmati (pochi in un’epoca in cui la riproducibilità tecnica dell’arte era poco più di un teorema filosofico) dove filamentosi grattacieli di tastiere di ogni risma venivano aggrediti con violenza barbarica da questo figlio della miglior stagione del pop inglese, di quella generazione che sfornava in quegli anni “formidabili” gente come Peter Gabriel, Robert Fripp, Roger Waters e tanti altri, solo per limitarci a leaders di acclamate rock-band. Una violenza barbarica e rituale, una sorta di parricidio nei confronti della tradizione classica dalla quale era stato comunque nutrito e alla quale tornava sistematicamente come un riconoscente figliol prodigo. E sì, perché Keith Noel Emerson, da Todmorden nello Yorkshire, ma, piccolissimo, emigrato nel Sussex, una famiglia di appassionati di musica, un’adolescenza trascorsa tra Bach e Dave Brubeck, tra le big band americane e le grandi scuole dell’est europeo tra Otto e Novecento, cominciava ad affinare in quegli anni cruciali, ancor prima che uno stile, una propria personale sensibilità, un proprio approccio alla musica ossequioso verso la tradizione classica e irriverente al contempo. I risultati si sarebbero sentiti alcuni anni più tardi nel suo primo gruppo di rilievo, i Nice (dopo un’esperienza precedente nei T-Bones), dove accadeva qualcosa di insolito per una rock-band anni Sessanta, ossia le tastiere la facevano decisamente da padrone a tutto vantaggio del virtuosismo istrionico, eppur sorretto da una cospicua dose di genio, dell’enfant terrible Keith.
Si sa però che la fama di Emerson è legata soprattutto all’esperienza con Lake e Palmer, a uno dei gruppi (anzi supergruppi) più celebrati degli anni Settanta, felice incontro di tre musicisti portentosi e tre forti personalità, capaci tuttavia, almeno per qualche tempo, di miscelare mirabilmente i rispettivi talenti. Finché la creatività resse (due-tre anni) i risultati furono lusinghieri, per quanto talvolta l’ispirazione apparisse soffocata e appesantita dalla struttura arzigogolata di certi brani, dalla presenza pervasiva delle tastiere, da un apparato esteriore inutilmente e perniciosamente faraonico. Ma qualcosa di buono uscì sicuramente, anzi, di molto buono.
Il disco che meglio si associa all’immaginario collettivo di quegli anni è Pictures at an exhibition, uscito nell’autunno del 1971 e registrazione di un concerto dal vivo a Newcastle il 26 marzo di quell’anno. Non il capolavoro, beninteso (personalmente ne preferisco altri, e non di poco), ma forse l’espressione più emblematica di ciò che fu quell’esperienza, per un paio di buoni motivi. Innanzitutto proprio perché tratto da uno spettacolo dal vivo, quanto di meglio si potesse offrire alla teatralità dei tre, in particolare a quella di Emerson, leader di un gruppo senza leader, animale da palco per eccellenza, spettacolo nello spettacolo e chi più ne ha più ne metta. In secondo luogo, perché il contenuto è esemplare, trattandosi di una rielaborazione in chiave rock di una composizione di musica “classica”, una tipologia creativa, quella degli arrangiamenti della tradizione “colta”, alla quale Emerson si dedicava con entusiasmo ed efficacia da anni. Per questo, nel ricordare il musicista britannico a un mese dalla scomparsa, vorremmo concentrarci su questo disco.
La composizione in questione, i celebri Quadri di un’esposizione del grande musicista russo Modest Musorgskij, una delle più geniali opere pianistiche di tutto l’Ottocento, composti nel 1874 in memoria del giovane amico Viktor Hartmann, pittore e architetto morto quello stesso anno in giovane età. La suite comprende una serie di brani che, nelle intenzioni dell’autore, corrispondono alle diverse sensazioni provate dall’immaginario visitatore di una mostra davanti ai dipinti dello stesso Hartmann; all’inizio e tra un quadro e l’altro lo stesso tema, la Promenade (Passeggiata), interpretata però di volta in volta in modo diverso, proprio a testimoniare il mutato stato d’animo del visitatore man mano che prosegue lungo il percorso. Assai apprezzata, a distanza di quasi 50 anni la trascrizione orchestrale da parte di Maurice Ravel.
Vanno fatte subito un paio di osservazioni. L’arrangiamento di EL&P, nonostante qualche svarione, è nel complesso pregevole e conferma la padronanza con la quale i tre, Emerson in particolare, sapevano gestire un repertorio anche molto impegnativo. Purtroppo i brani rielaborati sono meno della metà; in particolare, rispetto all’originale di Musorgskij, mancano tanti pezzi centrali assai belli, pregnanti di caratteri espressivi intimamente russi. In compenso, sono presenti alcuni brani aggiunti di sana pianta dai tre musicisti, che, almeno nelle intenzioni degli autori, dovrebbero mantenere un certo contatto espressivo con l’originale.
La Promenade con cui si apre il disco, eseguita all’organo, presenta inizialmente toni sommessi, cui fa presto posto un incedere solenne e maestoso. Segue il vivace The gnome (il disegno di Hartmann raffigura uno gnomo gobbo e contorto) che nella versione di EL&P presenta una prima interpolazione, invero assai riuscita per le interessanti combinazioni tra synth, basso e percussioni; ad ogni modo il tema originale ancora affidato al synth emerge poi in tutta la sua essenzialità. Ancora una Promenade cui si sovrappone, a sorpresa, l’intonatissimo canto di Greg Lake. A questo punto un’altra “intrusione”, The sage, con Lake ancora protagonista: una intensa melodia cantata, cui fa seguito un piacevole pezzo di chitarra classica, ma che poco ci azzecca, ad essere sinceri, con le suggestioni russe dei Quadri. A questo punto la suite prevede The old castle (un trovatore intona la sua canzone davanti a un castello medioevale), brano lento e struggente nella versione di Musorgskij, ma letteralmente massacrato da Emerson in un rock dai tempi concitati (e per di più prolungato da un Blues Variation), di per sé gradevole, ma che ne stravolge totalmente il senso e l’ispirazione. Il punto più basso del disco.
Ancora una Promenade, stavolta dal piglio decisamente energico, grazie al robusto contributo di basso e batteria, apre quello che una volta era il lato B del disco in vinile. Dopodiché, come ricordato prima, una deprecabile assenza di parecchi brani dell’originale, oltre la metà del numero complessivo, tutti molto ispirati, alcuni davvero geniali, dai tratti che vanno dal delicato al grottesco, dal gioioso all’elegiaco. Il salto ci porta così direttamente a The hut of Baba-Yaga (vecchia strega della mitologia russa), dove viene ben rispettato il dinamismo dell’originale. All’interno un’altra “aggiunta”, The curse of Baba-Yaga, in parte cantata, ma dove dominano sovrane le tastiere di Emerson, capace di tirarne fuori sonorità estremamente preziose e timbricamente ricercate. Infine la grandiosa The great gates of Kiev (un disegno che rispecchia il progetto di una grande porta per Kiev da parte dello stesso Hartmann), dove, con felicissima intuizione, la maestosità del tema viene affidata al potente canto di Greg Lake. Anche qui non mancano “emersonate” che mandano in visibilio il pubblico, il tutto in un clima di grande euforia collettiva.
Questo in sintesi estrema il disco, il quale poi è completato da un ulteriore omaggio al repertorio classico e russo in particolare, ossia una rielaborazione molto ma molto libera tratta dallo Schiaccianoci di Ciaikovskij.
Un disco esemplare, dicevamo prima, dell’estro creativo di Keith Emerson, genio della tastiera e musicista potenzialmente eccelso, ma la cui ispirazione fu sovente tradita da una quasi patologica attitudine all’esibizionismo. D’altronde, a fronte di un’esistenza così fortemente plasmata sulla musica, in cui il rapporto con le tastiere assumeva i caratteri di una fisicità quasi “carnale”, se non addirittura “erotica”, al musicista non poteva non risultare insopportabile la prospettiva di non poter più suonare come un tempo, per via di una disgraziatissima malattia degenerativa che stava compromettendo irreversibilmente la funzionalità della mano destra. E così l’amore per la musica ha vinto ancora, ma lo ha fatto assumendo le sembianze del suo polo opposto, quel “thanatos” che nei concerti di un tempo si esprimeva con la violenza dei coltelli lanciati tra le fessure delle tastiere. Lì una violenza rituale, quel parricidio di cui si diceva sopra, qui un gesto definitivo, liberatorio. Un uscire di scena da musicista.