C’è stato un tempo in cui il luogo più prezioso in cui potessi trovarmi era un colorificio, sognavo colore in ogni momento.

Quando poi ho messo davvero le mani sulla prima chitarra, non ci sono stati colori o ragazze che potessero distogliermi da quella.

Quando ho toccato la prima ragazza giusta, non c’è stata volta che non volessi con me la mia chitarra.

Poi l’amore, la musica e il colore sono diventati una cosa sola e ho cominciato a chiedermi perché mai una dovesse escludere le altre.

Perché non tutto insieme?

In questa poligamia dei sensi ho forgiato l’idea di un me stesso aperto su tutti i fronti, e da quel momento ho cominciato a capire che non esistono le frontiere, e che chi le vede o le pretende, merita la prigione personale che desidera costruirsi.

Questo è il mio orientamento politico.

È politico solo il desiderio, il resto è menzogna.

Chi vuole rimanere in gabbia faccia pure, io mi batto per aiutare me stesso e gli altri ad uscirne.

Ci sono uomini e stati, nazioni che credono di volersi sottrarre dal contagio dell’umanità. Idioti. Vorrebbero illudersi di chiudere le frontiere. Fortunatamente le frontiere non ci sono, non le troverai segnate per terra, non sentirai alcuna differenza sporgendoti da un confine verso l’altro. Sarai solo più vivo rendendoti conto che non esiste alcuna differenza tra qua e là, ammesso che tu voglia sentirti più vivo.

Da adolescente, recandomi in Svizzera con altri musicisti, ed essendoci smarriti, una notte ci siamo ritrovati alle prime ore dell’alba in un confine sperduto tra Svizzera e Liechtenstein. C’era solo campagna brulla e gelida tutto attorno a noi. Un passo di qui ed eri in Svizzera, un passo di là in Liechtenstein. Siamo scesi dall’auto per orinare lungo i campi ricoperti di brina, e io ho passeggiato tra i due confini incustoditi: non provavo altro che un forte senso di pena e di ridicolo per lo squallore che anima molte teste.

Allora non immaginavo si potesse arrivare un giorno a sparare presso un confine su gente in fuga da conflitti. Se lo avessi anche solo immaginato, credo che avrei sentito il desiderio di orinare su quel confine, piuttosto che farlo sul campo adiacente, per cancellare almeno per me quella linea immaginaria. 

Che fosse quello o un altro il confine che avrebbe sollevato follie  non cambia nulla, poiché quella linea non esisteva là allora come non esiste da alcuna altra parte oggi, né esisterà mai.

Taluni delimitandosi non sanno di volere solo perpetuare la propria morte, e vivendo da morti credono di preservarsi non si sa da che, non si sa perché.

Il mio dirimpettaio non apre mai le persiane, nel timore di vivere. La sua tomba da vivo gli conferisce molta sicurezza, quella di una morte anzitempo. Quando avanza nella via guardandosi attorno con lo sguardo di chi maledice chiunque incontri, la vita gli si nega con naturalezza, e l’unico posto in cui lui desidera tornare al più presto è la tomba di famiglia, in attesa di quella definitiva.

Al momento si accontenta del piacere di distruggere i fiori del vicino che sconfinano sul suo territorio e di attentare alla vita dei gatti del vicinato.

Accende il televisore e gli si spegne la flebile fiammella di coscienza.

Io voglio invece contraddirlo e contraddire chi crede di credere che ci si possa salvare dal contatto.

Io voglio scovare in me tutte le razze, voglio sentirmi sussurrare qualunque lingua, le voglio tutte.

Io voglio essere contagiato da te, voglio sapere che il mio e il tuo sangue si mescoleranno, e che a breve l’umanità sarà fatta di uno stesso gruppo indistinto, che la mia negritudine sia sfumata nella tua bianchitudine, che il mio occidente odori di oriente fino alla vertigine delle cellule.

Io voglio questa fratellanza nei geni, voglio prendermi in carica il tuo male, la tua fuga, il tuo tormento, la guerra che ti ha bruciato il passato. Voglio essere curato dalla somma delle tue sciagure. Io voglio che i miei occhi possano servirti per vedere il domani in cui sarai tu ad accogliere un nuovo fuggiasco.

Perché siamo in fuga tutti, perché non c’è un riparo, né una nazione, né un popolo né una speme, né altro.

Chi lo racconta non lo sa.

Se non lo sa, il suo racconto è falso.

Se a raccontarlo è chi sa bene come stanno le cose, è un mentitore da abbassare al rango del disperato, perché possa disperarsi della stessa disperazione che ha creduto di poter ignorare. Così saprà per contatto, che è l’unica vera forma di conoscenza, e questo gli gioverà molto, poiché vorrà a sua volta essere accolto, come lo vuole chiunque conosca il desiderio, e vorrà nel suo profondo che qualcun altro odori di sé, infine.

Per me non è dio il dio, ma è dio l’appartenenza.

Il contatto, il contagio, affondo, mescolamento.

Apriamo porte e finestre, stati, corpi e animi, che entri tutto, che circoli ogni cosa umana.

La vita è il coito soprannaturale dal quale nasciamo tutti.

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

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