Il giorno in cui ti metti all’opera per il nuovo disco, ne hai un’idea confusa e magmatica.

Ci sono voluti mesi per arrivare a quel momento, eppure ancora non sai esattamente che cosa farai. La vaghezza è la vera madre di una robusta creatività.

   Quando sei all’opera, e i cavi attraversano le stanze dello studio correndo sino ai microfoni, una luce lattea profonde una visione santa del tuo, del vostro operato, e gli altri musicisti si distribuiscono negli ambienti, si radunano fuori per arrotolarsi e fumare sigarette, tornano dentro energizzati dal freddo, eseguono e le basi sono in corso di definizione, si incide, si ascolta, si incide di nuovo, e il suono profonde dai monitors, hai del tuo lavoro nascente un’idea senza confini.

E poi il giorno in cui le incisioni, dopo mesi e mesi di travagli ed errori, ripensamenti e nuove luci, sono incredibilmente terminate, il fonico si arrotola e umetta una sigaretta distendendo le gambe sotto il tavolo, stanco del lavoro e, nella confidenza nata, stanco ormai persino di vederti, e tu stanco di vedere lui, malgrado vi piaciate, malgrado sia nato un sodalizio e per questo continuerete ancora a cercarvi, tu sai che malgrado tutto l’unico che farà l’ascolto definitivo sarai tu.

Quell’ascolto che è decisivo tanto da far male.

Tua sarà la scelta, tua la decisione, tua.

E sarà anche un nuovo addio, un lasciar cadere il passato, perché ogni cosa ora si rinnoverà a partire da questo momento e saranno cieli differenti. Tutto sarà un’altra cosa.

   La fine di un disco è la fine di qualcosa che ti ha fatto tremare a lungo, e che un giorno, un domani, nel tuo letto o in quello di qualcun altro, ritroverai nel pensiero e nel respiro, e vorrai sapere di essere stato lì col tuo amore vibrante ad attendere di esser colto.

Ma ora sei davanti agli ascolti, l’estate muta incomprensibilmente in una stagione inesistente, un freddo irreale ti avvolge e gela le mani. E dentro un bruciare d’animo.

   Vedi i suoi occhi, ti pungono col velluto di uno sciame di pensieri. Ci sei, non ci sei, vorresti essere con me ma lo stesso non vieni. Vorresti, non vuoi, non puoi volere.

Hai la tua musica. Sei malato di te stesso e delle tue idee, della tua caparbietà che in certi momenti si traduce in pura e cruda solitudine. Il lavoro delle idee è un regno ricavato per sottrazione da tutto il resto, il cui unico imperatore, legislatore e suddito sei tu. E tutto intorno è il vuoto.

Ti guardi intorno, getti un’occhiata dolorosa alla vallata delle tue emanazioni, saggiando quanto tutto questo bene prodotto faccia male. Così tanti anni trascorsi alla rincorsa di sé stessi. Che ce ne possiamo fare.

Il lavoro delle idee significa a volte soltanto la sopportazione di sé. Le idee bisogna sapersele far bastare, a volte, come l’unico nutrimento in una lunga carestia. Perché non c’è altro.

   Partono le prime note e sei invaso in via definitiva dalla tua interpretazione delle cose, ti tremano un minimo le mani, senti il cuore animarsi e il bisogno di un appiglio, un pensiero buono, il ricordo di quella sua certa voce quando ti ha toccato così bene.

Mi hai toccato bene, lo riconosco, – ammetti tra te – e ora sono cosparso su tutta la mia superficie di una specie di desiderio che si distribuisce con l’aria per il buio circostante. Si è fatta notte e tu sei qui anche se non ci sei.

   Allora ciò che dagli ascolti risulta ormai cosa fatta dopo averci a lungo pensato, dopo aver montato e smontato, cambiato, risuonato e sostituito, confrontato e rifatto, – nella testa tutto questo assume all’improvviso la forma di qualcosa di evanescente.

Quindi una lunga estenuante sospensione.

Sei tu? Ti ho riconosciuta persino al buio: sei venuta mentre io pensavo al tuo venire.

   E il mondo si contrae, come crediamo possa accadere all’universo, ma al mio un tuo respiro basta per ridarmi ogni volta un nuovo big bang.

È tutto a posto, a posto, è a posto, non manca niente, perché ora che ci penso non avevo pensato mai potesse essere tanto bello l’isolamento.

Bisogna convenire che il desiderio ci migliora, non si potrebbe fare di meglio.

   Ora sai di non poterti azzardare a tornare ormai su nulla. Come su un gesto già fatto, ciò che è fatto è fatto. Perché sarebbe pazzesco, ormai, sarebbe inutile tornarci. E mentre ripensi al peso sopportato da chi ti ha accompagnato per mesi e mesi alla ricerca del risultato desiderato, il peso di chi intuendo il tuo stato di sospensione, ha condiviso la tua sofferenza e allo stesso tempo l’ha condannata, mentre devi ammettere a fatica che l’opera seppure apparentemente terminata, lo stesso non avrà termine mai, qualcosa sospende e limita ugualmente in te un profondo disfacimento.

   Non si può essere mai completamente contenti, dopo ogni atto d’amore una parte di te vorrebbe ripercorrere in silenzio il vialetto di ghiaia che ti riporti al tuo amore appena lasciato, e dirle: ancora, e ancora, ancora. Ma non si fa: si prende la via principale nel cinguettare da tutta la flora del vicinato, e si parte.

Non si può essere del tutto certi di ciò che si dà alle stampe come il presunto meglio di sé. Perché per quanto faccia soffrire, l’incompletezza serve all’opera per aggiustare se stessa nel tempo e nello spazio. Come il tuo lasciare la sua stanza mentre il sole si alza, la chimera dell’opera compiuta rimane tale: una semplice chimera.

   Un’opera, per essere tale e allacciare un dialogo con chiunque lo voglia, deve saper essere aperta, e perciò per buona parte non-finita, non esaurita, la qual cosa è un concetto affatto diverso dall’essere incompiuta.

Sei giunto a pensare che il discrimine tra un’opera utile e una del tutto inservibile sia proprio questo suo rimanere aperta.

Tutto il resto è confezionamento.

La materia della tua opera, aperta come un fiore carnivoro, deve poter sporcare le mani e la testa di chi vi si accosta, deve saper lasciare segni di sé, intaccare e imbrattare chi ne voglia comprendere il senso.

   Se un’opera di musica non lascia macchie di colore come un dipinto fresco su chi la maneggia, vuol dire che è un prodotto buono per gli scaffali di un supermercato. Come quello ancora spento e con la merce anonima che guardi all’alba mentre a piedi ti avvii verso la tua automobile. A breve tanto quello quanto gli altri riapriranno e saranno zeppi di consumazioni, ma tu a quel punto sarai già lontano.

E lei con te.

Ciò che è, sarà.

5 agosto 2016

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

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