Il 4 novembre 1966 le acque si ruppero in mezza Italia. Firenze e Venezia le più colpite, invase dai fiumi e dal mare oltre che dalle pioggie battenti. L’alluvione di Firenze fu catastrofica, con l’esondazione dell’Arno e l’allagamento di gran parte della città storica con distruzione o danneggiamento di monumenti, opere d’arte, palazzi, case, negozi. Le oreficerie del Ponte Vecchio furono sventrate le auto accatastate nelle piazze, le case invase fino a quasi sei metri di altezza dal fiume putrido che lasciò dietro di sé devastazione, tronchi d’albero e un mare di fango.
Nelle stesse ore Venezia tremò di paura. La città che vive grazie alla luna e al movimento delle maree che si alzano e si abbassano restituendo vita alla laguna e al ricambio delle acque, per quasi due giorni visse l’incubo di un’acqua che saliva e non scendeva per una sfortunata combinazione di eventi: la pioggia che aveva scaricato valanghe d’acqua nei fiumi, la sessa che aveva alzato l’adriatico verso la laguna e lo scirocco che soffiava ininterrottamente a forte intensità portando tempesta e altra acqua verso le bocche di porto della Serenissima. L’acqua entrava e non usciva. Così, mentre i marosi sbattevano violenti sulle dighe delle isole a difesa dal mare, Lido e Pellestrina, le maree che ogni 12 ore entrano in laguna cominciarono a sommarsi l’una all’altra sommergendo fra onde violente prima l’area storica di San Marco, poi tutta la città, uscendo dai canali, dagli scoli, e salendo, salendo salendo.
I veneziani sono abituati all’acqua alta. Ma quella volta ebbero paura. Ne ebbero tanta sulle isole litoranee, strisce di terra separate dal mare da cumuli di rocce e terra che il mare cominciò a demolire facendo tuffare le onde sulle case, ne ebbero a Venezia quanti si resero conto dell’eccezionalità della situazione con l’acqua che, alle ore 18, toccò l’altezza record di 194 cm. sopra il livello medio del mare. Poi gli studiosi valutarono che se il vento non fosse calato all’improvviso ma avesse soffiato con la stessa intensità per qualche altra ora, probabilmente l’ulteriore onda di marea avrebbe superato le difese e si sarebbe riversata su Venezia come uno tsunami devastandola. Ma già le acque avevano sommerso Sant’Erasmo e Cavallino distruggendo coltivazioni e decimando il bestiame, con il mare che faceva infrangere le sue onde direttamente sull’isola di Burano.
Ci fu chi perse tutto. Magazzini commerciali devastati, abitazioni ai piani bassi sommerse. E fu lì che si cominciò a pensare alla fragilità di Venezia e a iniziative internazionali per sostenerne la difesa e il restauro. L’Unesco dieci anni dopo portò Paul McCartney in piazza San Marco e una miriade di artisti nei teatri, Uto Ughi fondò “Omaggio a Venezia”, i progetti a difesa si moltiplicarono finchè non ne fu approvato uno, per molti devastante dal punto di vista ambientale con la cementificazione delle bocche di porto e la costruzione di paratie mobili a difesa dal mare. E’ ancora in costruzione, non apre funzioni bene, molti sono finiti sotto processo o in galera per questa o quella mazzetta o irregolarità. Cose italiane.

Racconto questo perché, da veneziano, quel giorno ero a Firenze. Riuscìi quindi a vivere i due eventi in contemporanea, dalla casa fiorentina dei miei nonni a Campo di Marte, ascoltando via telefono le preoccupazioni dei genitori a Venezia, intrappolati in casa dalle acque.
Fu in qualche modo il mio esordio nel “giornalismo” perché, bloccato in casa, presi una vecchia macchina per scrivere e mi feci il mio giornale sull’alluvione, titoli, commenti, interviste, notizie, da portare a scuola al ritorno. Intervistai mia zia Silvia, che memore della guerra, era corsa a comprare tutte le bottiglie di acqua minerale che aveva trovato in negozio, e mia nonna Anna, solida austriaca, che aveva voluto scendere a vedere, e se n’era andata a piedi fin verso il lungarno camminando nell’acqua che le arrivava lì alle caviglie e poi era tornata preoccupata.
Ci vollero ore perchè il fiume scaricasse in città tanta acqua da arrivare fino a noi, lento, nel pomeriggio. La casa dei miei nonni a Firenze era all’angolo di due vie, proprio sopra la stazione. In fondo, seguendo i binari, comparve all’improvviso una riga giallognola. Lentamente cominciò ad avvicinarsi e ad allungarsi. Poi arrivò sotto casa, umida e fangosa. All’angolo si congiunse con un’altra striscia giallognola che proveniva dall’altra strada e cominciò a salire. Si sentirono come delle esplosioni sorde. Dal terzo piano potevo vedere le finestre delle cantine del palazzo di fronte esplodere sotto la pressione e l’acqua che si precipitava all’interno. Salì fino a quasi due metri, come potemmo vedere il giorno dopo dalla striscia nera sulla parete dell’ingresso del palazzo.
Venezia era salva, anche se nulla sarebbe stato più lo stesso e ancora oggi si può entrare nella basilica di San Marco e vedere la pavimentazione a mosaico con onde e avvallamenti provocati dall’acqua di quel 4 novembre.
Firenze era in ginocchio. Passata la furia del fiume era rimasto il fango, la conta dei morti, la distruzione nelle case e nelle attività commerciali, la devastazione degli archivi storici e dei musei. Piazza Santa Croce era sommersa di fango e macerie. L’acqua era entrata nella chiesa superando l’ampia scalinata e aveva devastato il vicino museo del monastero sommergendo fra l’altro il prezioso Cristo di Cimabue.
Avvicinandosi al cuore del centro storico si vedevano auto accatastate nel fango e la traccia del fiume a lambire le finestre dei secondi piani. Poi gli Uffizi, dove, si scoprì poi, preziosi documenti conservati nei sotterranei erano forse perduti per sempre. E quindi l’immagine drammatica del Ponte Vecchio devastato, buchi al posto dei negozi, tronchi d’albero trascinati dal fiume e rimasti sospesi sul fianco del ponte, a cercare di sfondare l’impedimento costruito dall’uomo. E attorno silenzio.
Nelle strade, nelle vie dove l’Arno aveva fatto da padrone, i fiorentini avevano riaperto i negozi, preso spatole e scope e avevano cominciato a pulire. Qualcuno spazzava, qualcuno lucidava, qualcuno setacciava il fango per ritrovare qualche oggetto, qualche prezioso, qualcosa che non fosse andato del tutto perduto per ricominciare a vivere. Era un silenzio irreale nelle strade solo pochi giorni prima affollate di vita, di allegria, urla di turisti e commercianti, i motori delle macchine. Ora solo fango. Senza tempo per le lacrime.

Poi arrivarono gli angeli. Non solo gli aiuti istituzionali, i soldati, i pompieri, ma frotte di italiani, soprattutto giovani, anche giovanissimi, che si erano armati di pale e stivali ed erano partiti perché la solidarietà allora non si faceva con un sms da 2 euro.
Antonello Venditti racconta che aveva 16 anni quando si unì a quelli che poi chiamarono “gli angeli del fango”. Suo padre era uno dei responsabili dei servizi di protezione civile e capì che non poteva negare il permesso al figlio. Anche Francesco De Gregori era tra questi ma, curiosamente i due non solo non si incontrarono ma neppure mai parlarono di questo. C’era come un pudore in questa generosa solidarietà di tanti, del tutto sconosciuti, senza interessi o tornaconto, andati ad aiutare dove e quando era necessario.

Su Firenze e Venezia, su quella devastazione, non furono scritte canzoni come avrebbero sicuramente fatto gli americani, magari in chiave blues. O almeno lo fecero in pochi, cantastorie come l’ironico cantore toscano Riccardo Marasco (“L’alluvione”), o il veneziano Gualtiero Bertelli (“La città sommersa”) o anche “L’aqua” con il Canzoniere Popolare Veneto, assieme ad Alberto D’Amico, Luisa Ronchini e Emanuela Negro.
Dell’alluvione di Venezia è nata un’opera lirica, “Aqua Granda” dal libretto del giornalista scrittore veneziano Roberto Bianchin con Luigi Cerantola, con le musiche di Filippo Perocco. La “prima” sarà ovviamente il 4 novembre 2016, nel cinquantenario dell’alluvione, al teatro La Fenice.
Degli “angeli del fango” hanno invece cantato altri, come Andrea Grassi e un gruppo di artisti parmigiani riferendosi ad altri volontari di altre alluvioni, perché la solidarietà e i volontari in caso di catastrofi, non sono mai mancati.
La gente è migliore di come la disegnano.
Giò Alajmo
(c) 3 novembre 2016