La Front porch philosophy di Mike Cullison, poesie polverose e assetate da una veranda scricchiolante

Il “Roadhouse Rambler” di Nashville torna con un album caratterizzato dalle consuete atmosfere country roots folk & blues che arricchiscono con realistica grazia e avvincente personalità i suoi testi intimisti e ben poco urbani

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Front porch philosophy
di Mike Cullison

Mike Cullison fa il caffè più buono di Nashville, ha il senso dell’ospitalità più spiccato del Tennessee e la sua casetta che domina una tranquilla collina di periferia della Music City è presidiata (si fa per dire…) da due simpatici meticci, Sadie e Maya, in grado di far inciampare a suon di feste anche il più elastico ed esplosivo dei triplisti estoni.

Insieme alla moglie Dianna forma una coppia di raro affiatamento e dalla dolcezza più unica che rara ma, quando imbraccia la chitarra acustica e sostituisce le sue t-shirts da eterno teenager con camicie a tema che sembrano uscite dall’atelier di Manuel Couture, si trasforma improvvisamente nel suggestivo “Roadhouse Rambler”, popolarissimo nei caffè e nei club di tutto il territorio frequentati dagli estimatori autoctoni. E, subito, perfettamente a suo agio in quei panni degni di un anfitrione da Gran Ole Opry, ti prende per mano e ti conduce come una guida di talento nel mondo del country roots folk & blues più sincero e ispirato.

32-2Un Borsalino preso a caso dall’attaccapanni e un paio di sobri Wayfarer completano il suo “look da microfono”, arrampicato su uno sgabello di legno da veranda scricchiolante con la chitarra acustica Epiphone ben poggiata sulla coscia e l’armonica sempre a portata di mano mentre, da dietro quel curato pizzetto bianco che in questo specifico caso anticipa anche il clima natalizio, prende vita una suggestiva incursione in un mondo dove sincero sentimento, vita vissuta e sano realismo regnano incontrastati.

Anche qui, dunque, siamo idealmente sotto un porticato di provincia ma senza l’ombra di zanzariere che sbattono e il vestito di una Mary qualsiasi che svolazza, mentre lei danza e Roy Orbison canta in sottofondo per le anime solitarie. Niente East Coast e niente desideri di fuga giovanile o propositi di redenzione, dunque. Cullison, schivo ma esperto songwriter, prosegue invece nella sua evoluzione artistica e umana che, dagli esordi più canonici e crudi da cantore della quotidianità operaia, lo hanno visto via via affinarsi ed evolversi fino a essere paragonato a un pittore e, addirittura, a uno scultore per la ricchezza, la profondità e la cura delle sue liriche (nel suo caso, infatti, parte tutto da lì…) che trovano successivamente valorizzazione ulteriore attraverso intuizioni musicali e collaborazioni eccellenti.

32-1Nativo dell’Oklahoma, dopo oltre trent’anni di lavoro in una compagnia telefonica con tanto di trasferta permanente ad Atlanta, Cullison pare il prototipo dell’artista di Nashville che non accetta compromessi e che non aderirebbe mai a quel team di annoiati professionisti delle “sette note mainstream” omologati e standardizzati che, una volta attraversato il panoramico Shelby Street pedestrian bridge valicando il fiume Cumberland, intrattengono turisti di bocca buona e dal gomito sempre ben alto a tutte le ore del giorno e della notte sui palchi delle decine di locali della Broadway con il Ryman Auditorium solo a portata di sguardo e il lussuoso trittico composto dalla Country Music Hall of Fame & Museum, la striminzita Walk of Fame con il ristrutturando Walk of Fame Park e l’infinito Music City Center a mezzo tiro di schioppo.

L’esordio eponimo nel 2004, Blue collar tired nel 2007 (dedicato a coloro che lavorano duramente in ogni angolo del mondo: e la copertina non poteva fare altro che proporre un orologio che segnava il faticoso espletamento del turno con un sandwich appena smozzicato e una tazza di caffè per una frettolosa pausa di ristoro da autentico “colletto blu”…), l’ep Roadhouse rambler nel 2011 che sembrava introdurre l’ascoltatore in un saloon (una sorta di dichiarazione d’intenti della maturità artistica) e The barstool monologues (solo per questa volta affiancato dai The Regulars, che ne accompagnavano le gesta quasi fosse lui stesso il “barista-confessore” e non solo il cantore delle eterne “mosche da bancone” alla Hank Bukowski/Henry Chinasky) hanno posto le fondamenta per questo Front porch philosophy nel quale Cullison abbandona il campo delle “tears in beer” alla Hank Williams per trasferirsi con i suoi strumenti, appunto, sotto il portico di casa.

32-3Packaging al solito sobrio ed essenziale ma completo, ormai salutate le prestigiose collaborazioni con Don Goodman, Johnny Neel (Allman Brothers Band) e Mike Stergis (Crosby, Stills & Nash), Cullison continua ad affidarsi agli amici e alla produzione dell’esperto Mark Robinson (altro “local hero” delle colline di Nashville con tanto di studio discografico in cantina, una seguitissima trasmissione radiofonica insieme alla moglie-manager Sue, una marea di date come chitarrista & frontman, nonché autore di alcuni quotatissimi album infarciti di Chicago blues, estro e passione). Undici brani autografi, due firmati con lo stesso Robinson e altri tre con il bassista Daniel Seymour e la coppia Dean/Stergis, per proiettare l’ascoltatore in un mondo reale ma, al tempo stesso, infarcito di pennellate di ispirato lirismo tra cuori spezzati, coppie divise, “altre” donne, solitudini, amori collaudati, riappacificazioni e piccole occhiate al piano di sopra.

Registrato in presa diretta all’Art Institute of Tennessee, l’album richiede un ascolto attento e rilassato per poi coinvolgere e affascinare con fascino progressivo. A partire dall’esordio con West Texas State of mind con la chitarra folkie pizzicata con vigore e l’evoluzione da marcetta allegra con la calda e calibrata voce del Nostro ad arricchire un approccio brillante e quasi festoso, prima che Family man riporti tutto sui binari di un cantautorato più classico e confidenziale. Curatissimo e mai invadente il lavoro in sottofondo delle chitarre acustiche di Robinson, Dave Isaacs e Brian Langlinais (talvolta rinforzate anche da dobro e mandolino) che ricamano e arricchiscono, mentre la sezione ritmica composta da Seymour e dal percussionista Pat McInerney mantiene la base con costanza e delicata precisione. Dorothy’s shoes arriva direttamente dalla cabina guardaroba, I can’t throw stones (uno dei passaggi più dichiaratamente country dell’album) sembra invece condurre l’ascoltatore dalle parti di Big Pink sulle colline di Woodstock. Little bit of trouble è un divertente esercizio di blues bianco e in versione live si rivelerà un must per la possibilità di coinvolgere la sala, Ain’t enough whiskey attinge dal canto suo e  più di altri brani dalla tradizione e anticipa il passaggio più lungo del lavoro, The devil sitting next to me, che di certo avrebbe affascinato Ivan Graziani buonanima. The disguise passa dalle parti di Laredo, Joe Ely e tanti protagonisti della scena di Austin, mentre Just that little things (brano più corto del cd con i suoi 2’18”) scivola in zona honky tonk da call & response in attesa che To God and back accompagni con classe l’ispirazione verso il tramonto e Big legged woman chiuda del tutto la setlist con il coro maschile di supporto per la versione personale di Cullison di Red headed woman.

Front porch philosophy è reperibile a prezzi abbordabilissimi ordinandolo direttamente dal sito www.mikecullison.com oppure attraverso canali internazionali diversi (e comprensivi anche di download in formato digitale) come Cd Baby o Amazon.

Vogliate gradire!

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