Simon & Garfunkel sono stati uno dei miei primi acquisti su album nella seconda metà degli anni Sessanta. In tempi di complessi beat erano una novità con le loro canzoni delicate, l’originale polifonia a due voci e il vago senso di canzone “alta” che usciva da una matrice folk non meglio identificata. Erano talmente particolari con le loro storie a volte perse in una poesia senza tempo a volte fotografie del reale, persone, società, fatti, che persino Bob Dylan se ne fece affascinare proponendo nel suo curioso e provocatorio Self Portrait una sua versione di The Boxer in cui aveva interpretato entrambe le voci sovrapposte.
Arrivati al successo per puro caso, grazie all’idea di un discografico che aveva autonomamente pensato di aggiungere una base di batteria e chitarre elettriche a una loro canzone folk, The sound of silence, ispirandosi alla svolta elettrica di Bob Dylan, mentre loro erano in tour nei club in Gran Bretagna, dopo l’insuccesso del loro primo album del 1964, Paul Simon e Art Garfunkel, due ragazzi del Queens di new York che abitavano a pochi isolati di distanza e amavano la stessa musica, si ritrovarono improvvisamente sbalzati all’inizio del 1966 ai vertici delle classifiche e della notorietà. Poi, quando raggiunsero l’apice del successo, con un album destinato a rimanere negli annali della grande musica pop, Bridge over troubled water, Paul Simon decise di rompere il giocattolo d’oro e continuare da solo, dopo vari scontri fra caratteri difficili e con diverse aspirazioni musicali. Art si ritrovò così spiazzato, provò a fare del cinema, ma alla fine nessuno dei due riuscì davvero a ritrovare la magia di quegli anni, anche se Simon ebbe comunque un successo personale considerevole.
Art Garfunkel è tornato in questi giorni in Italia per una serie di concerti, poco più di recital da un’ora e mezza scarsa, intervallo compreso, in compagnia di un pianista tastierista, Cliff Carter, e un chitarrista, Tab Laven, un semplice semiacustico formato club, che è ciò che preferisce. Carattere non facile, Garfunkel è noto per concedere poco o nulla alla stampa e pretendere il giusto dal pubblico. Non è infrequente vederlo sparire a una conferenza stampa o sbattere giù il telefono al cronista dopo due domande se la situazione non lo aggrada o la domanda è scomoda o dimostra poca conoscenza del suo lavoro. Al Pala Geox di Padova, come in ogni data precedente, è subito lanciato l’appello a non usare cellulari, non fotografare, non riprendere, non mandare messaggini, non distrarsi o l’artista potrebbe offendersi. E non è uno scherzo.
A metà di una canzone, cantata con voce flebile ma inconfondibile, quasi a pretendere un ascolto attento al dettaglio, Garfunkel si ferma. Punta il dito verso uno spettatore che stava riprendendolo col cellulare con tanto di luce puntata e gli dice di smetterla. “Allora? Hai finito? Basta?”, e poi si rivolge a tutti paziente: “Per cantare ho bisogno di concentrazione. Concentrazione! Per favore…”.
Non è l’unico a ribellarsi al malvezzo di andare ai concerti (ma anche a teatro) come in discoteca, cellulare acceso, flash, luci piantate sull’artista. La fama di Keith Jarrett era tale che quando arrivò per un concerto a Venezia, il pubblico era talmente sull’avviso e spaventato all’idea di vederlo alzarsi dal piano e sparire dal palco che non osava fiatare, tanto che fu lo stesso Jarrett a girarsi verso la platea e invitare sorridendo gli spettatori a rilassarsi. Chuck Berry invece, dopo aver vietato registrazioni e uso della sua immagine, una volta aUdine lo vidi fermare il concerto puntare il dito verso un operatore Rai con la sua telecamera e imporgli di depositarla sul palco, dove rimase nonostante le rimostranze fino a fine spettacolo.
Nel caso di Art il suo rapporto con la musica e il tipo di spettacolo impone attenzione e rispetto. A 75 anni, la voce limpida e cristallina di un tempo mostra i suoi acciacchi, il fisico è da anziano signore sovrappeso e spelacchiato, ma lo spirito è intatto e le canzoni scorrono via con la loro magia ripercorrendo i tempi con Paul Simon, e gli altri autori preferiti, Jimmy Webb, James Taylor (“che sarebbe un eccellente presidente degli Stati Uniti”, dice), in altre occasioni Gershwin, senza dimenticare gli Everly Brothers, il duo vocale che negli anni ’50, in pieno rock’n’roll, influenzò torme di adolescenti, da Simon e Garfunkel (che li vollero come ospiti al concertone romano davanti al Colosseo) ai Beatles.
In tour mondiale da tempo, segnato dall’esaurito alla Royal Albert Hall, Art Garfunkel è praticamente sconosciuto alle giovani generazioni ma ha ancora fan fidati in quelle che hanno vissuto l’intera epopea rock, e così il teatro si riempie anche senza raggiungere l’esaurito, e ne vale la pena, perché in repertorio si allineano canzoni delicate e deliziose, alcune mandate a memoria da generazioni, April come she will, The boxer, For Emily, whenever I found her, Scarborough Fair e poi anche il suo controcanto, The side of a hill, Bridge over troubled water e “la canzone che mi ha cambiato la vita”: The sound of silence; ma anche citazioni da Everly Brothers Devoted to you e Jimmy Webb, leggendo e facendo tradurre frammenti di immagini poetiche tratte dal suo libro in via di completamento.
Il concerto si conclude in tempi stretti ma sufficienti. E lascia la sensazione di aver trascorso la serata in compagnia di un vecchio amico. E di canzoni straordinarie.
Giò Alajmo
17 febbraio 2017
… mi pare interessante contribuire all’articolo sottolineando che quel “discografico” lungimirante che decise sua sponte di aggiungere basso e batteria alla ballata folk di “The sound of silence” altri non era che il signor Thomas Blanchard Wilson Jr. produttore artistico di personaggi quali Sun Ra, Cecil Taylor, Bob Dylan (il singolo “Like A Rolling stone”, gli albums “The Times They Are a-Changin'”, “Another Side of Bob Dylan” e Bringing It All Back Home oltre alle sessioni finali di “The Freewheelin'”) Frank Zappa (lui mise sotto contratto i Mothers Of Invention con la Verve garantendo e permettendo la produzione di “Freak Out!” nel 1966 e del successivo “Absolutely Free” l’anno dopo) Velvet Underground (“The Velvet Underground & Nico” e “White Light/White Heat”) e Soft Machine (il loro primo album in collaborazione con Chas Chandler, bassista degli Animals) … dopo una vita in picchiata uno dei produttori musicali più geniali del secolo scorso ha lasciato questo pianeta nel 1978 … una grave perdita per il mondo musicale internazionale mai troppo sottolineata … 🙂