Pinaxa. L’uomo dietro al suono

A colloquio con l’uomo che interviene sulle onde sonore di Jovanotti, di Battiato e dei Depeche Mode

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In occasione dell’uscita di Spirit dei Depeche Mode, abbiamo incontrato Pino Pischetola, detto “Pinaxa”, il fonico che nel ‘90 stava dietro Violator, disco – capolavoro della band. Parola d’ordine: rischiare sempre.

Partiamo dall’inizio. Quando hai iniziato a fare questo mestiere, perché hai deciso di metterti dall’altra parte del mixer?
Sono un appassionato di musica e di tecnologia fin dai primissimi anni ’80. Così mi è bastato unire queste due passioni per far emergere un grande amore per l’aspetto tecnico della musica. Ho sempre “smanettato” con apparecchiature varie, a casa di amici e in piccoli “studioli”. Poi ho frequentato un corso professionale organizzato dalla Regione Lombardia per studiare come tecnico del suono e, finita quell’esperienza, nell’87 ho avuto la grossa fortuna di iniziare a lavorare ai Logic Studios di Milano. Erano gli studi dei fratelli La Bionda, probabilmente i più belli che ci fossero in Italia a quei tempi. Ho cominciato come assistente, fianco a fianco con professionisti freelance, per lo più stranieri, e vedendo delle cose a cui altrimenti non avrei mai potuto assistere in Italia. Mi sono impegnato, ho assimilato tutto e ho sfruttato questo grosso vantaggio per iniziare la mia carriera professionale.

Nell’87 l’approdo ai Logic Studios. Appena tre anni dopo è arrivato Violator, per il quale i Depeche Mode chiesero espressamente di te.
Solitamente non è la band a scegliere il fonico, bensì il produttore, che in quel caso era Flood. In passato avevo lavorato come assistente di Alan Moulder, che nell’88 aveva prodotto Malafemmina di Gianna Nannini, disco mixato proprio ai Logic Studios. Quindi, quando i Depeche Mode decisero di registrare l’album negli studi dei fratelli La Bionda, Flood si rivolse a Moulder, con cui aveva lavorato spesso in Inghilterra, perché gli consigliasse un fonico di Milano. E Moulder gli fece il mio nome.

All’epoca i Depeche Mode, per quanto fossero già una band “di peso”, dovevano ancora fare il salto di qualità che avrebbero fatto appunto con Violator. Com’è stato collaborare con loro? Mentre lavoravate al disco, vi rendevate conto di avere per le mani qualcosa di così grosso che li avrebbe fatti “svoltare”?
È stata indubbiamente un’esperienza unica: mi trovavo in uno studio bellissimo, con uno dei migliori produttori in circolazione e con una delle band elettroniche più forti di sempre, quindi davvero non avrei potuto desiderare di meglio. C’è da dire che avevo molta paura, perché sentivo di dover registrare un disco che forse era al di sopra delle mie capacità. Un giorno chiesi a Flood come stessi andando e lui mi rispose: «Molto bene, altrimenti ti avrei messo subito a preparare i caffé». In effetti, in un disco del genere lui non poteva certo rischiare di coinvolgere una persona che fosse un freno alla produzione. Quindi, nonostante tutte le paure, ho dato il massimo e me la sono cavata bene.
I Depeche Mode venivano dai primi grossi tour americani nelle arene, avevano pubblicato 101, il primo live, e avvertivano le aspettative sul disco per fare il salto su scala mondiale. I brani hanno sicuramente aiutato. Comunque, la preoccupazione principale era quella di realizzare un bell’album, indipendentemente dalle vendite. Il pensiero non era “Che bello, adesso spacchiamo tutto”, ma “Facciamolo meglio che si può”. E così è stato.

Questo, per quanto riguarda il lato “in studio”. E nei live come cambia il lavoro?
Ho iniziato a seguire i concerti molto tardi: con il tour dei Dieci stratagemmi di Battiato. In generale, non sono un grande amante del live, perché preferisco la tecnicità alle sorprese. Quando lavoro in studio ho l’intero processo sotto controllo: se c’è un problema mi fermo, lo risolvo e vado avanti. Avevo paura di non poter fare altrettanto con gli eventuali problemi che si sarebbero verificati in concerto. In realtà, lavorando a un certo livello, i problemi tecnici vengono sempre arginati grazie alla professionalità delle persone che si occupano dello spettacolo. Quindi mi sono buttato anche in questa sfida.
All’inizio le mie intenzioni erano quelle di occuparmi dei soli live di Battiato, con cui collaboro da tanti anni e con cui ho un ottimo rapporto. Poi però mi è stato chiesto di lavorare anche nel tour negli stadi di Jovanotti, nel 2013, e quella è stata una grossa sfida che ho accettato molto volentieri, per fare un ulteriore (e definitivo) salto di qualità, visto che “oltre” un tour negli stadi non c’è niente e in studio ora non temo più nulla. L’esperienza è andata molto bene e infatti ho deciso di ripeterla nel 2015.
Comunque, per il momento le mie collaborazioni live si limitano a questi due artisti. Ho fatto qualche concerto con Ramazzotti in Sud America e presto lavorerò con la Nannini all’estero, ma solo per sostituire dei colleghi.
Quanto a Battiato e Jovanotti, con loro la questione è diversa dato che, collaborando anche in studio, posso godere di un rapporto “privilegiato” fondato su una conoscenza reciproca che rende tutto più facile. L’idea di andare a lavorare live con artisti che non conosco un po’ mi spaventerebbe.


Quanto è importante avere un buon rapporto con l’artista con cui stai lavorando?

È fondamentale. Nel mio lavoro, le capacità tecniche sono la base e, da un certo livello, scontate. È il fattore umano a fare la differenza: saper gestire un disco o un concerto a livello psicologico, sapere esattamente come comportarsi, capire se è meglio dire o non dire una cosa, e come dirla. Tutte cose che ho imparato in studio, quando lavoravo come assistente e osservavo dall’esterno le meccaniche di una produzione e i rapporti tra artista, musicisti e produttore. Un tecnico del suono può essere bravissimo, ma se poi frena il progetto o lo mette deliberatamente in discussione, allora diventa un elemento destabilizzante. L’empatia è fondamentale.

Qual è il momento più impegnativo in un concerto?
I primi 15 minuti. Nel pomeriggio, durante le prove, si cerca sempre di trovare il “suono giusto”, consapevoli però che in concerto, con il pubblico, tutto sarà completamente diverso. Solitamente poi migliora, ma ci sono situazioni in cui non accade, e quindi i primi 10 – 15 minuti sono fondamentali per riassestare la situazione e ottimizzare il suono. Capire se hai fatto un buon lavoro è piuttosto facile: se la gente canta e balla, allora sai d’aver fatto un buon lavoro.

Dicevi che sei spaventato dal live per gli imprevisti che possono sopraggiungere. Com’è lavorare con Jovanotti, un artista dalle continue sorprese?
I concerti negli stadi del 2015 a livello tecnologico erano di una complessità estrema, che però è stata risolta durante le prove e durante l’allestimento. Quindi in concerto dovevo limitarmi a seguire Lorenzo: la “macchina” funzionava perfettamente, eppure anche in situazioni così professionali rimane sempre un elemento umano – molto creativo – che può cambiare le carte in tavola da un momento all’altro. Quindi bisogna essere pronti a tutto.

Arriviamo a Joe Patti’s experimental group: un lavoro piuttosto atipico in Italia, in cui tu e Battiato avete reinterpretato suoi vecchi pezzi. Che linea guida avete adottato?
All’epoca era stato chiesto a Battiato di partecipare a un festival di musica elettronica organizzato a Roma. Lui sarebbe potuto andare a improvvisare per due ore, cosa che però da un po’ di anni non ama più fare, preferendo dare una struttura preliminare ai suoi lavori. Abbiamo pensato che l’unico modo per rimanere in clima elettronico d’avanguardia fosse reinterpretare il passato, ricampionarlo e ritrattarlo per creare un percorso attraverso le sue canzoni più sperimentali.
Quindi, abbiamo fatto questo concerto in cui, per praticità e per l’elevata difficoltà tecnica, ero presente anch’io sul palco. Avendo a disposizione una grande quantità di materiale, per non sprecarlo abbiamo deciso di rifinirlo per un’eventuale pubblicazione, senza però avere particolari progetti in mente. Il lavoro poi ha suscitato l’interesse della Universal, che l’ha pubblicato. Da lì, la richiesta di altri concerti con questo set-up. E così il progetto, inaspettatamente, è proseguito.

Tornando a un discorso generale, tu non ti limiti a ottimizzare il suono, ma intervieni sulle onde sonore, infatti nel disco di Battiato il tuo lavoro è accreditato come “live electronics”: in un certo senso, è la chiave di quello che sarà il prodotto finale. Come intervieni concretamente? E in che misura il prodotto finale è il risultato del musicista che suona o del tuo lavoro?
Viviamo in un mondo in cui la tecnologia, nella musica, è onnipresente: anche i suoni acustici vengono passati nei computer, processati in elettronica e qualsiasi nota può essere modificata in infiniti modi. Per me la sola cosa che conta è il risultato finale e di conseguenza qualunque mezzo per arrivarci è valido: ci sono volte in cui lascio il suono “vergine” e altre in cui intervengo alla ricerca della sonorità che ritengo “giusta”.
Negli ultimi anni il mio lavoro in studio è stato orientato al missaggio, la fase finale in cui ricevo le registrazioni e mi “limito” a bilanciare i suoni e lavorarli per ottenere il brano esattamente come sarà ascoltato dalla gente. In questa fase si possono seguire diverse direttive: si può puntare alla potenzialità massima della canzone, oppure cercare un equilibrio tra gli strumenti, o ancora privilegiare quelli che si ritengono più importanti e tra tutti la voce. È un lavoro delicato in cui, ancora una volta, entra in gioco la fiducia tra musicista e fonico: l’obiettivo è soddisfare pienamente l’arista, cioè la persona che deve metterci la faccia e dev’essere convinta di ciò che andrà a proporre. Anche qui è tutta questione di equilibri: l’artista mi dà la sua fiducia e io in cambio restituisco il massimo impegno per il risultato.

Le tre regole per essere un buon fonico? 
La prima, imprescindibile, è amare la musica.
La seconda, essere sempre aggiornati dal punto di vista tecnico.
La terza, mettersi in discussione: non dormire mai sugli allori, anche dopo aver lavorato a un disco primo in classifica. Rischiare continuamente è il solo modo per fare questo lavoro per tanti anni, senza trasformarsi in un “impiegato della musica”.

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