“Soul Crusader Again”, Romani completa il suo omaggio a Springsteen

Il poliedrico cantautore emiliano, dopo il 45 giri e l’album in vinile appena pubblicati in occasione del Record Store Day, chiude il cerchio e completa la sua tripletta springsteeniana con dodici interpretazioni in chiave black-soul di altrettanti brani scovati nel repertorio più ispirato e meno prevedibile dell’artista del New Jersey

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Soul Crusader Again – The songs of Bruce Springsteen
di Graziano Romani

Gli affezionati completisti del blue collar rock italiano non hanno certo bisogno di indicazioni: quando Graziano Romani “pubblica” (e, ormai, siamo arrivati a quota 23 in circa trent’anni di scorribande…), si compra sempre a scatola chiusa. E non si sbaglia mai: in italiano o in inglese, solista o leader di band, produzione autografa, di geniale ispirazione fumettistica oppure tributo personale che si tratti.
Dell’atteso Soul Crusader Again – The songs of Bruce Springsteen, del resto, abbiamo già parlato in abbondanza nelle settimane passate. Prima annunciandolo, poi anticipandone anche alcuni contenuti in anteprima.
Ora, invece, siamo giunti al momento della valutazione concreta dell’album dopo un ascolto che va ben oltre il valore storico, statistico o affettivo della nuova avventura dell’ex leader dei mai troppo rimpianti Rocking Chairs. Ascolto dell’album, c’è da aggiungere, avvenuto in parallelo alla convincente visione complementare della “data zero” del nuovo tour (andata in scena sul palco del teatro Miela di Trieste nell’ambito del prestigioso Trieste calling the Boss, sesta edizione della convention nazionale springsteeniana di primavera) con un’altrettanto rinnovata e ispirata band al suo fianco.
Ebbene, lasciando da parte storia e caratteristiche del personaggio, corsi e ricorsi dell’artista, statistiche e primati ampiamente reperibili nei precedenti servizi, passiamo direttamente all’analisi di un dischetto che, a totale scanso di equivoci, viene introdotto da un packaging talmente sobrio e onestamente incisivo da sgomberare il campo ancora una volta (e una volta per tutte) dal rischio di accuse speculative.
Ovvio, il compito di Soul Crusader Again rimane comunque quello di chiudere idealmente il cerchio ispirativo e affettivo che lega Romani all’artista di Freehold fin dai giorni di quella Restless Nights incisa con i Chairs nell’ormai abissalmente remoto anno 1989. E di quello che è accaduto in mezzo, a partire dal premiatissimo Soul crusader – The songs of B.S., si è già detto in abbondanza.

Iniziamo, intanto, a sottolineare come la stessa Backstreets (autentica Bibbia storica del mondo springsteeniano che approfondisce con professionalità e non si limita certo alle sterili genuflessioni alle quali purtroppo siamo ormai abituati oggidì, prima in versione cartacea e ancora oggi cliccatissima webzine) abbia già prenotato “sulla fiducia” direttamente dagli Stati Uniti un discreto numero di copie da inserire nel suo selezionatissimo shop internazionale.
Il rocker di Casalgrande, del resto, lo scorso 22 aprile aveva già deciso di festeggiare a modo suo il Record Store Day 2017, sempre supportato dall’ancor giovane etichetta Route 61 Music, proponendo due uscite in vinile dedicate allo stesso “tema”, entrambe in ‘edizione limitata’: il singolo Lift me up/When the lights go out e il 33 giri antologico Graziano Romani sings Bruce Springsteen 1987-2017 (raccolta di dieci incisioni, cinque per lato, già pubblicate nell’arco della sua carriera ormai trentennale).
In questo caso, invece, parliamo di un prodotto nuovo di pacca e contraddistinto dal tradizionale digipack apribile della label capitolina che l’autunno prossimo andrà orgogliosamente a festeggiare i sette anni di vita.
A poco più di tre lustri da quell’uscita che aveva scaraventato più che mai Romani all’attenzione delle Sandy e dei Magic Rat di tutto il mondo (in assoluto il primo album tributo a Springsteen da parte di un singolo artista a livello internazionale) arrivano dunque altre dodici “citazioni” mai scontate e banali, scelte e incise espressamente per l’occasione (11 su 12, almeno). Prevedibile e auspicata la totale assenza di banalità e classiconi ormai iper abusati, come suo costume Romani è andato a spulciare tra la produzione solo apparentemente minore (o, in qualche caso, generosamente delegata all’ugola di altri colleghi più o meno bisognosi di una spintarella per rientrare nel gotah o, almeno, avvicinarsi a esso…) del “paisà” del New Jersey. Scegliendo un coerente approccio black-soul e una serie di arrangiamenti che, seppur rispettosi delle intenzioni “paterne”, riescono sempre a regalare qualcosa di nuovo e personale sotto il profilo dell’originalità e della creatività.
Affiancato dalla produzione esecutiva di Ermanno Labianca, dunque, Romani decide di aprire le ostilità con una Hold on – To what you got andando a “pizzicare” un brano originariamente composto per il leggendario Gary U.S. Bands, eroe del soul caduto artisticamente in disgrazia e “rispolverato” gloriosamente dalla E Street Band nei primi anni Ottanta dopo quasi vent’anni di imperdonabile oblio (e risalutato anche più recentemente dallo stesso Steven Van Zant in una puntata della terza e ultima stagione della serie tv Lilyhammer). La partenza è rocciosa grazie al drumming di Nick Bertolani e alla sei corde di Erik Montanari: qui Graziano si spinge verso le tonalità dell’interprete originale, visto sul palco due anni or sono al Summer Jamboree di Senigallia, ma volgendole altresì a uno scenario più classicamente rock. Una vigorosa e tambureggiante dichiarazione d’intenti che subito ribadisce il concetto andando a scatenare il sax del fidato Max “Grizzly” Marmiroli su una Protection (“girata” da Bruce nel 1982 all’interpretazione Donna Summer, inequivocabilmente prodotta da Quincy Jones, ma con lo stesso Springsteen e il professor Roy Bittan tra i musicisti) che qui ovviamente vira verso un Asbury Jukes Sound con il basso di Lele Cavalli (bassista dei Wild Junkers, già con Graziano nel primo tributo Soul Crusader) in evidenza, il supporto delle tastiere di Andrea Ravacchi e la voce di Paola Torricelli (la sorprendente signora Romani in persona…) ai cori.
E se la successiva Because The Night, brano in assoluto più noto dell’album a vantaggio anche dell’ascoltatore più generalista, aggiunge un pizzico di ruvidità alla versione forse più epica che Patti Smith aveva dedicato al marito Fred “Sonic” Smith tra i solchi di Easter (è lo stesso Romani a suonare la 12 corde d’avvio con Gigi Cavalli Cocchi a pestare sui tamburi e Franco Borghi, altro ex Rocking Chairs, ai tasti dell’organo che sostituisce il piano del 1978), la sempre straziante Club Soul City ci riporta all’album On the line di Gary U.S. Bonds con una versione meno orchestrata, privata degli echi e più essenziale. Più confidenziale, aggiungerei, grazie anche all’apporto di David Scholl ai cori e adattissima a un “call & response” con il pubblico nelle esecuzioni live. Stessa fonte e una maggiore aderenza all’originale con toni tuttavia più alti e taglienti saliscendi per Love’s on the line che esalta Cavalli Cocchi, affiancato da Marmiroli alle percussioni, trovando un Romani ispiratissimo all’armonica.
Man At The Top, brano che conduce all’ideale giro di boa e tra gli episodi che più saranno graditi ai “die hard fans”, arriva direttamente dal cassetto dei sogni e della nostalgia dei primi collezionisti di bootleg: chicca periodo post Nebraska e pre Born Tn The USA, avrebbe trovato ufficialmente spazio solo molti anni più tardi nel box Tracks. Qui diventa un’azzeccata ballatona assai più morbida e rapida rispetto l’originale, mentre i preziosismi di Borghi e i cori dell’anomala accoppiata Torricelli/Scholl la arricchiscono, senza tuttavia privarla della patina di drammaticità richiesta.
Per Lift me up, scarna anteprima a 45 giri da Record Store Day e disponibile in performance acustica sul canale YouTube dell’etichetta, Romani rinuncia al falsetto che Bruce aveva scelto nel 1999 per la colonna sonora del film Limbo e, armato ancora della 12 corde rinforzata dal sax, le regala nuovi orizzonti, meno confidenziali ma sempre aderenti allo spirito della pellicola di John Sayles (già dietro la macchina da presa per i videclip di Born in the USA, I’m on fire e Glory Days) interpretata da Mary Elizabeth Mastrantonio e David Strathairn.
Lion’s Den, altro passaggio che costringe il sax di Marmiroli a fare gli straordinari per la delizia dell’ascoltatore, arriva dallo sterminato elenco di rarità accantonate da Bruce per troppi anni: di due anni più “anziana” rispetto a Man at the top, e infatti più affine alle scarne e oscure delizie acustiche di Nebraska, qui viene caricata di maggiore potenza e Romani “lascia andare” la voce che lo ha reso famoso e si diverte con amici e consorte per un’inattesa “party song” che ben si allaccia alla successiva I wanna be with you (out-take di The River, anch’essa ripresa in Tracks e diventata un must carico di energia soprattutto nel Reunion Tour 1999-2000) dove la chitarra di Montanari lancia il galoppo da arena, bagnato però dal sudore da piccolo club. Anche in questo brano, Graziano si concede qualche licenza in più sotto il profilo della potenza vocale prima del netto abbassamento dei toni e dei volumi degli ultimi tre brani del lavoro.
The Long Goodbye arriva da Human Touch e dall’epoca californiana con le prime esperienze personali marcatamente soul: la scelta si orienta verso una sorta di “ricca essenzialità” con il basso acustico di Cavalli e l’harmonium di Rovacchi ad accompagnare la chitarra di Romani. Factory, una delle canzoni più popolari del lavoro e ovviamente prelevata da Darkness on the edge of town, merita un discorso a parte. Si tratta, infatti, del primo brano in assoluto eseguito da Springsteen davanti a una folta rappresentanza di appassionati italiani che, l’11 aprile 1981 (in pieno embargo da parte delle star internazionali nei confronti degli allora pericolosi e scomodi palchi tricolori…), si erano catapultati fino al già vetusto Hallenstadion di Zurigo per un clamoroso battesimo generazionale. Per molti, Romani compreso, tutto ebbe dunque inizio in terra svizzera e la scelta di questo brano, allora eseguito in apertura acustica e solitaria, qui si arricchisce e si velocizza leggermente, facendo percepire la netta volontà di non andare a snaturare troppo il pathos originale di uno dei primi brani fortemente “operai” di Springsteen con soluzioni forzate a caccia di estrosità, nonostante un’azzeccata armonica finale forse più dylaniana che brucesca.
Il commiato è affidato a The Promise (per decenni autentico miraggio live per i fan più affezionati, poi generosamente regalata in versione pianistica anche in Italia), unica canzone non incisa da Romani espressamente per Soul crusader again: risale infatti al 2002 e aveva già trovato spazio nel prestigioso tributo mondiale Light of day. Dal passato, dunque, ritornano inaspettati ma graditi anche alcuni compagni di viaggio di allora: dalla chitarra elettrica di Fabrizio “Tede” Tedeschini al piano del maestro Francesco Germini, fino alla sezione ritmica composta da Alex Class e Max Baldaccini. Il padrone di casa ci mette il resto e prende questa gemma misconosciuta ai più (arriva creativamente dallo stesso periodo di Factory, poi rimasta “ufficialmente” inedita fino al 1999 quando venne reincisa per il cofanetto Tracks e, infine, rivista ancora nel 2010, title track dell’album “perduto” contenuto nell’altrettanto eponimo box set commemorativo) dandole una forma forse meno dolente rispetto quella del Bruce di allora, disilluso dalle scorie della causa legale con Mike Appel. Una ballata dai toni più corposi e densi, talvolta più “suonata” nonostante l’attacco acustico di Germini e poi interpretata senza troppi timori riverenziali, ma grande rispetto per autore e versioni originali, fino al commiato di rara liricità.

Un atto d’amore, l’ennesimo, da parte del Romani. Degna chiusura, una volta per tutte, di un percorso parallelo che, per poter essere memorabile, deve anche trovare naturale e ideale esaurimento.
Vogliate gradire!

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