Scimone, il direttore che portò Vivaldi nei jukebox

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Claudio Scimone, direttore dei Solisti Veneti

Voglio molto bene a Claudio Scimone. L’inventore e direttore dei Solisti Veneti, la più nota e prestigiosa orchestra da camera veneta, non è solo un eccellente didatta e un musicista apprezzato in tutto il mondo, ma è un uomo appassionato per la musica, di grande apertura e curiosità, e dotato di una ironia non comune.

Io sono musicalmente onnivoro, anche se il mio cuore batte notoriamente rock, ma oggi che tutto si confonde, che c’è chi costruisce nuove barriere e chi le abbatte, che la musica ha forse esaurito la sua spinta ribelle e settaria per tornare a essere arte e cultura sempre e comunque “altra” – il “linguaggio dell’universo” come sono solito definirla da tempo – un concerto dei Solisti Veneti è sempre una piacevole sorpresa e una scoperta.

Scimone, “premio Rubinstein – una vita per la musica”, ha 82 anni ma lo spirito di un ragazzino. Lo trovi su Facebook, a commentare post a notte fonda, o è capace di telefonarti sapendo di poter condividere l’eccitazione della notizia: “Ho a casa mia per qualche giorno il pianoforte di Chopin”, oppure “il clavicembalo di Bach” invitandoti a condividere la cosa, magari con qualche giovane pianista pronto a suonare qualche pagina o magari invitandoti a metterci su le mani sfiorando coi polpastrelli gli stessi tasti toccati in passato da Johann Sebastian o Fryderyk.

Lucio Dalla una mattina se lo vide capitare a casa a Bologna. Una scampanellata alla porta: “Sono Scimone, posso salire con qualche amico per farle sentire una cosa?”. E il cantautore bolognese in pantofole e vestaglietta, si vide entrare dalla porta il direttore d’orchestra con tutti i Solisti Veneti, strumenti in mano, che gli si disposero in formazione nel salotto e gli regalarono un piccolo concerto vivaldiano per dimostrargli il fascino della musica da camera.

La formazione era nata nel 1959
, specializzandosi nel repertorio barocco, ma allargando gli orizzonti ben presto ad altri periodi e autori. Fra i suoi primi violinisti ci fu per qualche tempo Pino Donaggio, promessa del Conservatorio veneziano, lo stesso da cui uscì Patty Pravo e dove Sir Oliver Skardy, voce dei Pitura Freska, faceva il bidello, innescando la doppia battuta sul “Conservatorio dove il più famoso è il bidello” o, rivoltata, “il Conservatorio che ha reso famoso anche il bidello”. E proprio Donaggio – la cui “Io che non vivo”, tradotta You Don’t Have To Say You Love Me campeggia nel disco che Elvis Presley aveva appeso sopra il suo letto a Graceland con le sue ultime incisioni – si è riavvicinato negli ultimi tempi ai Solisti realizzando con loro un album di musiche da film Lettere e una composizione inedita per archi, Rimembranza, presentata per la prima volta giovedì scorso a Venezia assieme a composizioni di Monteverdi, Vivaldi, Mozart e un concerto di Beethoven (op.61) magistralmente interpretato al violino da Uto Ughi.

I Solisti Veneti

Ughi, cremonese di origini istriane, è uno dei grandi talenti mondiali e un grande fustigatore delle istituzioni: “Non si capisce perchè Venezia non abbia mai celebrato degnamente Vivaldi – si lamenta – ma anche Genova si è quasi dimenticata di Paganini. La sua casa natale è stata abbattuta per costruirci su un supermercato!”.

Il concerto, tenutosi in uno dei gioielli dell’arte mondiale, la Scuola Grande di San Rocco, già laboratorio di Tintoretto che secoli fa ha interamente arredato il grande spazio ricco di marmi, statue e colonne con i suoi giganteschi quadri, ha reso omaggio a quattro secoli di musica da Monteverdi che letteralmente fece voltar pagina alla musica del tempo, fino a Donaggio che ha mescolato gli echi dei suoi studi lontani per Bach e Vivaldi con l’amore per Schoenberg e la musica da film che lo vede ormai da tempo protagonista.

Uto Ughi diede vita alla nota polemica su Giovanni Allevi e la scarsa conoscenza e considerazione dei classici della musica da parte delle istituzioni, più avvezze a seguir le mode e a tagliar fondi che a promuovere e valorizzare la Cultura italiana anche dove l’Italia ha un patrimonio irripetibile e unico al mondo.

Mi meravigliai non poco quando nel programma di concerti dei Solisti Veneti, poco dopo la polemica, vidi comparire tanto il nome di Uto Ughi, quanto quello di Giovanni Allevi, protagonisti entrambe di due diversi appuntamenti con l’ensemble di Scimone.

“Come ha fatto a mettere nello stesso programma Allevi e Ughi?”
Il maestro padovano sorrise, come fa sempre: “Semplice, non gliel’ho detto…”.

Uto Ughi con Gio Alajmo e Claudio Scimone

Scimone è un personaggio così. “Io non mi preoccupo di quello che dicono di questo o di quello. Sono un musicista. Mi piace suonare. Se la musica mi diverte, si fa. Poi lascio ad altri il compito di giudicare i compositori”. Per questo i suoi concerti sono spesso pieni di sorprese pur rispettando sempre il repertorio tradizionale e i grandi autori della classicità. Invitare Donaggio, come un tempo Dalla, Allevi, Bocelli al confronto è rompere uno schema e invitare i giovani all’ascolto, come capita ai concerti della domenica mattina o in mille altre occasioni, ognuna utile per mostrare, spiegare, divulgare, appassionare, unendo magari al repertorio barocco o classico un pezzo jazz di Scott Joplin trascritto per archi, come ha fatto al concerto di esordio del suo “Veneto Festival” dedicato a Tartini.


Ventisette anni da direttore
del Conservatorio di Padova e da docente a Venezia lo hanno ben temprato. Ricordo quando ci presentammo in una tv locale a parlare di Lucio Dalla e alla reception la giovane bella e un po’ svampita ragazza che doveva registrare i nomi degli ospiti gli chiese: “Claudio come? Scimione?”. Il maestro sorrise e la corresse senza fare una piega: “Scimone, non scimmione”. Poi le fece il verso del gorilla “Uh Uh” ridendo. Dai critici e dalla goliardia patavina ne aveva sentite di tutti i colori in tanti anni.

E ne aveva fatte.

Anche il Festivalbar
. Perchè Scimone e i Solisti Veneti si fecero convincere (era il 1970) a portare la loro musica nei jukebox, accanto al pop, alla dance, al rock, con il Concerto per due mandolini di Vivaldi. Vinsero la speciale classifica dedicata alla musica classica (precedendo la Sonata in Do Maggiore di Scarlatti suonata dall’immenso pianista Arturo Benedetti Michelangeli). Ottenne 365mila voti.

Erano tempi curiosi. E anche più creativi e meno banali. Tempi in cui non c’era differenza tra l’ascoltare i Led Zeppelin o Mussorgskij, i Rolling Stones o Bach e Scarlatti, Hendrix o Beethoven, anche se non allo stesso modo. E i ragazzi giravano per strada con una chitarra in mano, non con uno smartphone e le cuffiette.

Giò Alajmo
(c) 2017

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