I can hear the music, i Beach Boys a Roma

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Fernweh: sentire nostalgia di luoghi o tempi mai vissuti o visitati

I tedeschi ci sanno fare con le parole è dannatamente vero penso mentre esco dalla sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica.
In realtà non penso quello, cioè nell’ideale romanzato da articolista (concetto ossimorico) penso quello ma nella mia testa rimbombano solo due pensieri che si ripetono in loop: “ARUBAGIAMEICAUHAIUANNATEIKIA” e “Ma quanto diamine spingono a 70 anni?”.
Che poi non era diamine nel pensiero originale ma poi passerei per becero.

Torniamo subito a noi: The Beach Boys hanno veramente spaccato lo spaccabile in una sala piena a metà che però balla per tre.
Entro nella stanza quasi in punta di piedi, le 20:00 sono un orario iper insolito per un concerto ma stasera sono ospite in un tempio che non mi appartiene, intorno a me ragazze, ragazzi ma rimanevano comunque degli Outliers rispetto alla media anagrafica come è logico che sia: questa è la serata di chi li ha vissuti.
Mi siedo e cerco di assaporare gli sguardi di chi ho accanto, c’è aspettativa, c’è eccitazione e c’è curiosità: per molti questo è un ennesimo ricordo da aggiungere alla liste, per altri questa è una chance, per me è cercare di entrare in contatto con qualcosa che la mia giovane età mi ha precluso.
Un forte attacco di Fernweh che si acuisce quando sullo schermo appare un rapido recap della storia del gruppo con tanto di outfit improbabili, ragazze urlanti e tanto tante tante spiagge (leggasi beaches e non l’altro termine simile). Praticamente l’anello di congiunzione tra i Beatles e i Thegiornalisti.

Dopo questa affermazione vi lascio le misure…
Il concerto si apre con Surfin’ Safari e raggiunge subito uno degli apici con la devastante Surfin in The Usa che coglie di sorpresa il pubblico che si limita a ballare in piedi ma rimanendo sul posto.
Il problema è che quando si tocca una vetta si può solo scendere e le canzoni che seguono non hanno lo stesso mordente con la dovuta eccezione di I Can Hear The Music fino ad arrivare ad una piccola introduzione alla canzone d’amore dedicata da Mike alla sua dolce, bellissima Chevy a cui è dedicata ovviamente The Ballad of Ole Betsy.
Da lì in poi iniziano ad alternarsi momenti in cui non puoi stare seduto e ti lanci sulla balconata per ballare con gli altri quattro debosciati in piedi come te mentre sottopalco scatta il delirio a momenti più raccolti come il tributo a George Harrison e anche una performance a cappella. Ci sarebbe pure la cover di California Dreamin’ ma ne riparliamo quando smetto di tremare. Il finale poi è praticamente citofonato ma meritevolissimo: Barbara Ann fa cantare pure i bambini in sala e Fun Fun Fun chiude senza troppi fronzoli questo “concerto aperitivo” finito alle 22:10 circa.
Poverini, hanno pur sempre una certa età, il problema è che te ne accorgi solo quando le luci si spengono perché i signori se la cavano ancora alla grande, è necessario ribadirlo.

Poi scatta l’attacco di Fernweh perché tu queste cose non le hai mai vissute ma per lo meno hai goduto di un assaggio di quando le spiagge della California erano in bianco e nero. Allora, solo allora ti rendi conto che forse I just wasn’t made for these times…

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