LP d’oro all’Auditorium Parco della Musica di Roma

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C’è una ragazza piccoletta che porta i capelli ricci e lunghi, così lunghi da coprirle gli occhi facendola sembrare qualcosa a metà tra un cartone animato e Andrea Appino.
C’è una ragazza minuta che si presenta sul palco e fischietta.
C’è una ragazza che ha una voce da spavento e la cui potenza mi ha fatto domandare più volte se la tribunetta su cui ero sicuro avrebbe retto sia l’impatto acustico sia i piedi che battevano a tempo dei presenti.
Laura, che ormai è entrata a tutti gli effetti tra gli artisti d’adozione nostrani (si ok, lei è avvantaggiata dalle radici): Sanremo, il Wind Summer Festival, il doppio concerto in Italia sono sintomatici del fatto che la ragazza si sta disabituando ad esser chiamata Loura (o semplicemente Lora) e apprezza sempre di più la pronuncia originale.

Sale sul palco senza vezzi e ci propone una prestazione che fa chiedere più volte «Come *riempite voi a vostra discrezione* è possibile?» che sia per la nonchalance con cui calca il palco, per il suo mostrare il suo lato badass e delicato al contempo risultando quasi, perdonatemi l’andare a ripescare tra i chick-flick adolescenziali, una Caroline à la 10 Things i hate about you (il film perché la serie non è MAI esistita) o ancora perché nonostante tu sia seduto in piccionaia quasi puoi vedere quel sorrisetto estremamente confident che con un più che discreto grado di certezza accennerà ogni tanto.
Ma tanto lei sul palco se la fischia e riesce a catalizzare l’attenzione su di lei muovendosi il minimo necessario (diciamo che un buon 75% di concerto se l’è fatto sulla stessa mattonella) ma siamo a Roma e si sa che se sai calciare veramente bene quel pallone a volte si può chiudere un occhio sulla mobilità, d’altronde la lady ti si mette la sotto a suonare tamburelli, chitarre e *plurale di ukulele* mentre spinge al limite le corde vocali.
Purtroppo anche nelle notti che si preannunciano di gran livello ci sono delle piccole pecche che rischiano di farti tornare a casa con l’amaro in bocca.
Per quanto Lauretta (ormai siamo migliori amici, si) abbia portato avanti uno show di un’intensità rara e si sia dimostrata una santa con dei fan che alla prima occasione si sono lanciati sotto il palco e l’hanno presa d’assalto quando ha deciso di scendere (si sente che mi sto mangiando le mani per non essere stato là sotto con loro?) replicando una qualsiasi scena di Daenerys quando il popolo grida «Mhysa Mhysa Mhysa» non ho potuto fare a meno di percepire un Dottor Tyrell (sapete di cosa parlo) sussurrarmi nell’orecchio: «La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo. E lei la sta bruciando da due parti!».
Si esattamente, l’unico problema di una notte intensa è stata la sua brevità, un’oretta e mezzo di concerto (tenendoci larghi) che ti fa rimanere al tuo posto in attesa di un’altra scena alla fine dei titoli di coda solo per poi ricordarti che questo non è un film della Marvel, no, sei andato a vedere un titolone, sei andato a vedere un Angels with dirty faces che si prende i suoi tempi e fa come vuole ma alla fine non puoi dire che non hai tollerato Jimmy Cagney.
Che poi effettivamente ripensandoci Angel with (a) dirty face calza a pennello per la cantante italo-statunitense.

Se vogliamo andare ad analizzare però la qualità più che la quantità non abbiamo nulla di cui lamentarci perché in un set di sedici tracce (bis/encore incluso) ha fatto sognare e poi svegliato a schiaffi in continuazione il pubblico: l’apertura atmosferica di Muddy Waters è quasi irriconoscibile rispetto alla sua versione su disco, Other People riporta la familiarità mentre Up Against Me avrà costretto tante persone a mandare un vocale al proprio partner (si è poco romantica come cosa ma non le faccio io le regole, mi spiace), si alternano poi dei pezzi del vecchio e nuovo disco fino ad arrivare alla quasi chiusura che ci regala quella perla di When We’re High a causa della quale ancora sto in fila in clinica perché non riesco a togliermela dalla testa  e la ormai celebre Lost On You che cala il sipario per la prima volta per lasciare spazio a finali nostalgici con Night Like This, Someday e Into The Wild.
E che quando un LP è 45 giri con due canzoni ti lamenti? Non vale in questo caso lo stesso ragionamento?

Esco solo tra una folla di coppie, sono quasi le 23:00, se mi sbrigo riesco a prendere la metro, mi avvio. «Scusa, la metro più vicina? Sai ero al concerto e mi sa che fra poco chiude», mi chiede una turista Ucraina in un inglese per nulla incerto, le do le indicazioni e poi le chiedo conferma delle mie impressioni sul live: «Ah si, è la scaletta standard, l’ho vista a Kiev da me in un club e sono venuta a Roma praticamente solo per sentirla all’aperto!», risponde Anastasiia (si, si scrive così) per poi aggiungere: «Oh ma hai visto che ha tirato fuori? Ci andavo pure se me ne faceva tre di canzoni», (si poi vi passo il dizionario Inglese – coatto) e io non mi sento di dissentire, anzi.
Mica se lo sono inventato l’altro ieri il concetto “breve ma intenso”, mi sono sentito come quando ridi a una battuta per convenzione ma la capisci dopo, mi hanno indicato la luna e per dieci minuti buoni ho guardato il dito.
Fortuna che le emozioni hanno la memoria fotografica, metto le cuffiette e la metro mi accompagna sulla Tuscolana, prendo la bicicletta e mi avventuro Into the Wild per tornare a casa, ovviamente con When We’re High a cannone.
C’hai ragione Anastà!

Di seguito la photogallery a cura di Danilo D’Auria.

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