Ok: oggidì, ormai, la pubblicazione di un libro a carattere musicale non si nega più a nessuno. Piccoli fan in adorazione impegnati nell’esaltazione acritica dei loro idoli con il sogno di consegnarne una copia a “lui/lei” in persona; scafati furbastri alle prese con “instant book” realizzati in due pomeriggi al massimo di scrittura approssimativa, tra ricerche su Wikipedia e grandinate di foto (non sempre accreditate ai legittimi autori…) per confondere le acque su eventi di massa che, a livello artistico, meriterebbero sì e no dieci righe; editori marpioni che non leggono neppure le bozze, ma stampano tutto e il contrario di tutto in cambio “soltanto” di un “piccolo” contributo in “euro sonanti” e un certo numero di copie rigorosamente a carico dell’autore; i soliti noti che ripropongono sempre gli stessi contenuti da lustri e lustri, limitandosi a modificare il titolo, affiancati dalla radio/tv/testata “amica”, sempre pronta a esaltarne originalità e contenuti; autobiografie agiografiche realizzate, in realtà, da ghostwriters amici con la complicità di uffici stampa e addetti marketing, reduci da campagne per lanciare un deodorante e pronti per veicolare subito dopo pizze di cartone surgelate; pessimi titoli acquistati a suon di soldoni dall’estero e tradotti in fretta e furia sull’onda del decesso dell’icona di turno (spesso, artisticamente parlando, defunta da anni e anni ma, sempre e comunque, opportunità di lauto guadagno durante le festività o nell’ambito delle strategiche operazioni revival). Alcuni giornalisti, addirittura, ne hanno scritti (si fa per dire…) assai più di quanti non ne abbiano letti nella loro vita per doveroso aggiornamento professionale e/o legittimo interesse personale (sigh!).
Ormai, come detto, nelle librerie, nei supermercati, negli autogrill, nelle edicole e sul web c’è spazio per tutti. Il che è un bene, intendiamoci. Di autori validi e di titoli interessanti ce ne sono, e anche molteplici, dedicati a tutti i fronti del pianeta musica, a prescindere da quanto sopra. Il problema è piuttosto che (non tutti, solo pochissimi…) i meritevoli e i capaci arrivano alle case editrici che “contano”, finendo per vedere sviliti i loro sforzi, le loro (spesso ottime) idee e la loro concreta preparazione per assoluta mancanza di visibilità, promozione e distribuzione. Così, per fare la scelta giusta quando si indossano invece i panni del lettore/acquirente (senza dimenticare neppure le carrettate di eBook veicolati a suon di spam, ormai più frequenti dei colpi di sole in estate), bisogna districarsi con esperienza, malizia e un pizzico di oculata strategia (leggasi, anche, un pizzico di culo…).

Ecco, in un panorama così desolante, un personaggio di peso come Max Stefani (benché quasi emaciato come un’aletta selvaggiocrinita anni ‘70 e, solo all’apparenza, nervosamente esplosivo come uno dei tennisti che tanto apprezza anche come giocatore) arriva alla sesta pubblicazione personale, nonché al terzo capitolo di una specifica trilogia dalle caratteristiche ormai prestabilite, chiare e didascaliche. Non conoscere il nome di Stefani, per qualsiasi semplice “simpatizzante” in tema di rock in Italia degli ultimi 40 anni, costituisce una carenza ingiustificabile. Mica deve esservi simpatico, ovviamente. Anzi: polemico, piantagrane, ostinato e rissoso. Ma anche pioniere, idealista, divulgatore, mecenate, coerente ed enciclopedico. E, fuor di dubbio alcuno, COM-PE-TEN-TE!
Un curriculum vitae poco sbandierato e perciò poco redditizio, il suo, ma comunque notissimo alla maggior parte di coloro che ancora oggi continuano a bazzicare gli ormai rarissimi (ahimè!) negozi di dischi e che si rilassano solo ai concerti in cui selfie e presenzialismo da evento/farsa non costituiscono la principale ragione di vita. Essere il “papà” dello storico e impagabile Mucchio Selvaggio (fondato nel 1977 e diretto fino al 2011) dovrebbe pur contare qualcosa; aver esordito solo per passione nel lontano 1971 sulle pagine di Suono, proseguendo per un paio di anni anche su Popster/Rockstar, aggiunge pochino; mentre pesano di nuovo parecchio la creazione in veste di editore di Rumore, Chitarre e Duel/Duellanti (rivista dedicata al cinema), nonché del sito Rockol. In anni più recenti, infine, condirettore di Suono e direttore dell’ormai defunto Outsider. Senza dimenticare le sue impennate in veste di attore, più che mai a suo agio sul set di Nico 1988, biopic dedicato alla tormentata ex musa dei Velvet Underground (regia di Susanna Nicchiarelli) e presentato in anteprima mondiale alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.

Basta? Mi pare di sì. Anche se andrebbe doverosamente aggiunto ai suoi meriti quello di aver portato sul (talvolta miope e arretrato, al tempo come oggi…) mercato editoriale italiano, allegandoli ad alcuni numeri dello stesso Mucchio, volumi seminali di approfondimento di alto livello accademico come Il rock – Star system e società dei consumi (David Buxton), The sound of the city (Charlie Gillett, diviso in tre piccoli tomi) e Cut’N’Mix (Dick Herdige), nonché di aver promosso attraverso le pagine delle sue riviste gli approfonditi studi e le dotte teorie di Simon Frith (autore del basilare Sociologia del rock). Scusate: vado a memoria da vecchio e assai grato fruitore.
Ebbene, se i primi due titoli a sua firma (Seppia: La mia vita con un cane e il poderoso Wild thing) avevano costituito catartiche forme di autoanalisi e di confessioni autobiografiche in seguito a una serie di delusioni professionali (nel secondo caso, la sua vita scorre parallela e senza peli sulla lingua alla storia della critica musicale italiana e soprattutto del Mucchio Selvaggio, fino ai giorni della sua traumatica e dolorosa uscita di scena dalla testata periodica), gli episodi successivi chiudono del tutto il capitolo personale e si dedicano esclusivamente alla “storia” della musica rock. Prima in Italia (In rock we trust – Percorsi di rock in Italia, l’epopea dei più importanti giornali, programmi radio & tv, siti web, concerti, locali, scene musicali dal 1950 a oggi) e poi in trasferta nel calderone anglo-americano.
Sempre con volumi corposi, ricchi di immagini calzanti (inserite in sede di appendice per non deviare mai troppo l’attenzione) ma, soprattutto, di testi fittissimi e degni di una denuncia da parte dell’AIMO – Associazione italiana Medici Oculisti: letture che richiedono da parte del fruitore la stessa passione, la stessa apertura all’approfondimento e la stessa pazienza dell’autore, prive come sono di osceni pettegolezzi e inutili morbosità da backstage, ma altresì persino esagerate in quanto a date, eventi specifici, contesti e virgolettati.

California Dream 1960-1980 costituisce dunque il terzo capitolo del progetto di Stefani e segue il capostipite I quattro cavalieri dell’apocalisse (dedicato ai numi tutelari della sei corde inglese: Peter Green, Jimmy Page, Jeff Beck ed Eric Clapton) e il successivo Happy Trails (come il titolo del seminale album dei Quicksilver Messenger Service di John Cipollina…) che vola oltre Oceano per focalizzarsi sui colleghi statunitensi Duane Allman, Jimi Hendrix, Mike Bloomfield, Jerry Garcia, Jorma Kaukonen e Stephen Stills.
California Dream, dunque, fa capire fin dall’inizio il contesto geografico nel quale Max va a parare, destreggiandosi con l’ormai consolidata tecnica tassativamente cronologica tra “brother” Jackson Browne, Gene Clark, Ry Cooder, Lowell George, Randy Newman, Gram Parsons (se conoscete Joshua Tree solo attraverso gli U2 è meglio che rivediate il vostro background…) e Warren Zevon, andando a sfrucugliare con certosina curiosità e implacabile dedizione nella vita da West Coast pre e post “flower power” (un universo Bill Graham dipendente e, per alcuni di loro, mortifero) anche delle rispettive band: dai Byrds ai Little Feat fino ai Flying Burrito Brothers.
E, come ormai tradizione stefaniana, a parlare sempre e comunque sono proprio gli stessi protagonisti “attraverso interviste e recensioni anglo-americane-francesi rigorosamente dell’epoca – sottolinea l’autore – Ma anche italiane, proprio per capire come furono accolti sul nostro mercato quei musicisti e quelle sonorità. Secondo me, è l’unico modo per raccontare i fatti: non ha senso – aggiunge Max – mettere il parere di un giornalista, soprattutto se italiano…, che non ha neppure vissuto quei tempi e parla solo per sentito dire. Io la vedo così”.
400 pagine, consueto generoso formato 17×24 centimetri, pochi fronzoli, disponibile a giorni e, si badi bene, soltanto copie numerate. Il volume, infatti, proprio come i suoi predecessori non apparirà volutamente nelle librerie, ma sarà disponibile esclusivamente dietro richiesta diretta all’autore (via mail all’indirizzo oppure sul suo profilo Facebook, via Messenger). “Tutte le copie, oltre alla numerazione, conterranno anche una dedica personale. Ho scelto questa strada – conclude Stefani dal suo buen ritiro in Sabina – e proseguo lungo di essa con estrema convinzione”.
Ecco, solo il fatto che uno come Max Stefani (con la sua storia, i suoi indubbi contatti e la qualità riconosciuta dei suoi lavori) sia costretto ad auto prodursi e ad autocommercializzarsi, trascurato dai nomi principali dell’editoria che garantiscono una distribuzione talmente ossessiva e capillare in grado di far vendere persino le memorie di ex XFactoriani senza l’ombra di una carriera alle spalle (ma anche all’orizzonte…), rappresenta un’autentica filibustierata. Anche nei confronti del pubblico. Ma, se non altro, regala un pizzico di giustificata e serena rassegnazione a molti dei suoi colleghi meno in vista e troppo spesso genuflessi davanti a porte rigorosamente sbarrate: “Se è costretto uno come lui a intraprendere questa strada autonoma, cosa potrei mai fare io di più?”. Quindi, alla fine, è anche un buon antidoto contro il mal di fegato all’insegna del “Mal comune, mezzo gaudio”.
Infine, un doveroso e simpatico ringraziamento allo stesso Stefani per aver cambiato in corso d’opera il titolo del volume in questione, forse lucidamente o forse inconsapevolmente, in quanto già velatamente veicolato dal sottoscritto, noto studioso di Bob Seger, per un progetto editoriale in corso d’opera da tempo ma che forse non vedrà mai la luce. E, magari, non sarà neppure un male.
Vogliate gradire!