Una volta, ai bei tempi, ancora nei giorni del vinile (ma abitudine ereditata anche in seguito dopo l’avvento del cd), prima di decidere o meno in merito all’acquisto di un album (i soldini erano pochi e le alternative, fortunatamente, moltissime…) era necessario approfittare di un prezioso e delicatissimo iter. Il suddetto percorso richiedeva, ovviamente, il sostegno nel negoziante abituale: visione copertina fronte retro, decellofanizzazione laterale senza provocare traumi al packaging ed estrazione del disco, prima di saggiarne con avidità i secondi iniziali (braccio e testina permettendo del solito, paziente, gestore…) dei primi 3-4 brani almeno. Un delicato e prezioso test uditivo alla “buona la prima”, “dentro o fuori”, “ci siamo o non ci siamo”, “ok, lo compro” o “niente da fare, grazie: riponilo pure”.
Quanti artisti e quante band sono passate attraverso questo procedimento ormai forse obsoleto, ma sempre decisivo e prezioso? Qualcuno, forse, punito oltre ogni demerito; altri, invece, magari esaltati da scafate intuizioni nell’attacco dei pezzi o dalle solenni cantonate prese dall’ascoltatore/sommelier musicale di turno.
Certo, se l’artista era uno di quelli “di fiducia”, la pratica poteva anche essere evasa senza pre-ascolto ma, nella maggioranza del casi, si procedeva così. E lo sforzo ripagava mediamente alla grande, nonostante una risibile percentuale di prevedibili abbagli.

Il tutto per giungere al dodicesimo lavoro dei Cheap Wine che, reduci dalla pubblicazione del volume Cheap Wine – Tutti i testi con traduzione a fronte (inutile ritornarci sopra, qui trovate la recensione), a due anni di distanza dal live sui generis Mary and the Fairy e a tre dall’ultimo lavoro in studio, Beggar Town, tornano con un lavoro di distribuzione IRD per chiudere una trilogia iniziata già nel 2012 con Based on lies. E, attraverso il nuovissimo Dreams, quei personaggi sconvolti dal peggioramento catastrofico delle loro condizioni di vita, affossati dalla crisi economica, che escono da un bunker e trovano solo macerie, alle prese con una dura lotta per la sopravvivenza a caccia di riscatto e redenzione, ora sembrano davvero aver superato lo shock. Per poi, grazie a un’impennata d’orgoglio, essere pronti anche per affrontare il futuro con decisione. Gli strumenti principali a loro disposizione? Amore, fegato e, ovviamente, sogni (Dreams, appunto).
Ecco, mescolando i tempi quasi si fosse in uno degli episodi di Ritorno al futuro, mettiamoci dunque nei panni dell’eterno adolescente Marty McFly/Michael J. Fox che, armato di piumino rosso smanicato e skateboard, si precipitata nel negozio di fiducia. E abbordiamo questo dischetto con il consolidato criterio e la certosina prassi di cui sopra.
L’attacco concesso da Full of glow è di quelli che fulminano con la voce di Marco Diamantini, gravemente seria e cadenzata ma calda e alcolica quanto basta, che pare uscita dall’archivio del foniatra di Lou Reed buonanima e dell’imprevedibile Dan Stuart, occasionalmente in società con l’otorino di Steve Wynn. Il biondissimo clone italiano di Tom Petty, frontman e autore di tutti i testi, pare volerti entrare nell’anima per urlarti tutto ciò che vorresti sentirti dire da un musicista rock. Lasciate perdere, dunque, le ormai logore banalità in stile ‘born to be wild’ da parte di viziosi milionari in limousine con le maniglie d’oro o le fanfaronate alle ‘spero di morire prima di diventare vecchio’ da parte di settuagenari afoni e sordi che continuano, invece, a portare in giro la caricatura di loro stessi come l’ultima delle tribute band; dimenticate anche gli slogan faciloni, gli accenni politici ruffiani, le rime baciate e i reggiseni che volano. Questa è vita vera: sentimenti, delusioni, sofferenze, precipizi e cadute. Ma anche determinazione, speranza, ostinazione e cuore. Quindi: ok! Esame superato! L’assaggio basta e avanza per convincere anche il più scettico dei profani: lo prendo!

Ebbene, Dreams è ovviamente molto, molto, molto meno ingenuo, adolescenziale e hollywoodiano (che suona assai meglio di ‘cinecittàiano’, volete mettere…) di quanto possa far presagire la sua copertina tropicalmente floreale. Una scelta grafica che pare ricordare la tribù da bisboccia rivierasca del ‘No shoes, no shirts, no problem’, tanto cara a Kenny Chesney e al suo nume tutelare Alan Jackson. Qui scendiamo invece, musicalmente parlando, in territori sempre legati al Pasley Underground, ma evoluti e personalizzati all’ennesima potenza. Forse, volendo essere addirittura blasfemi, ben più moderni e sagaci anche rispetto quanto non riescano ormai a produrre i numi tutelari di quella storica scena, così acidamente buia e realistica.
I Cheap Wine, come abitudine, fanno così un altro passo avanti e, pur potendoselo permettere, non rifilano ai ‘die hard fans’ una zuppa sicura e consumata, magari approfittando dell’impareggiabile talento alla sei corde di Michele Diamantini (il chitarrista più schivo del mondo, forse affiancabile in questo e al talento sopraffino solo a Michael Timmins) o della creatività tra piano, organo e fisa del sempre prezioso, inconfondibile e incisivo Alessio Raffaelli. In questo caso, più che mai, ‘quelli del vinaccio scadente’ mettono da parte le individualità strumentali e, ancora una volta, ‘fanno gruppo’ contro la miopia di un’editoria discografica che li costringe oggi come ieri alla ‘concreta indipendenza’ (indipendenza autentica, la loro, e non solo sbandierata ai quattro venti per giocare con il ruolo dei finti ribelli, magari in prime time riccamente retribuite e con la gocciolina che ancora pende dal naso…) e alla ‘concreta autoproduzione’ (il supporto economico dei loro fan più sinceri, i wineheads, attraverso il crowfunding, si è rivelato prezioso ma, credo, più sul piano morale che su quello materiale vero e proprio). Ma anche in barba alla scarsa preparazione o alle posizioni curiosamente maliziose di una stampa più o meno specializzata, troppo spesso composta da piccoli fan e grafomani incalliti, magari ignoti all’OdG anche dopo lustri e lustri di pubblica attività (ok, serve poco, conta ancora meno, tutela quasi per niente i suoi iscritti, Pubblicisti o Professionisti che siano, ma almeno potrebbe/dovrebbe costituire un serio baluardo contro l’esercizio abusivo della professione che, in altri ambiti, viene altresì severamente e giustamente punito…), ma anche e soprattutto al prevedibile disinteresse di un pubblico che, oggidì più che mai, preferisce ‘sentire’ piuttosto che ‘ascoltare’, facendosi ‘cadere addosso’ la musica direttamente dagli uffici marketing che foraggiano abilmente tv, radio e stampa generalista (uno, piuttosto importante, decenni fa, si era virtualmente suicidato a causa di uno ‘scandalo payola’: oggi, invece, si tratta di semplici, limpide e consolidate transazioni commerciali che incidono come macigni sulla circolazione e la visibilità dei prodotti…) piuttosto che ‘cercandola’ con interesse, passione e dedizione. Come si faceva un tempo, approfittando proprio dei negozi, dei gestori cordiali e… bla bla bla.

Limitarsi a una banale recensione, con i C.W. di mezzo, sarebbe quasi offensivo per le loro posizioni. Liquidare il tutto accontentandosi di citare i brani e scopiazzare la cartella stampa di turno (non oltre 30 righe da imbastire in una ventina di minuti al massimo, mi raccomando…) sono abitudini che lasciamo ad altri lidi. I pesaresi meritano altrettanto coraggio, altrettanta ostinazione e altrettanta combattività anche nei commenti relativi al loro lavoro. Non cercano scorciatoie, non pretendono di essere simpatici, non vanno a caccia di padrini e di sponsor. I C.W. sono quelli di Dreams, prendere o lasciare!
E, sia chiaro, regalano così il loro disco più maturo. Ovviamente, in attesa del prossimo. Un album da ascoltare ‘a volume altro, molto alto’: il consiglio lo forniscono loro stessi, ma diventa quasi una reazione spontanea del fruitore dopo pochi secondi soltanto di ascolto. Un cd da maneggiare con attenzione dopo aver scartato la consueta, scrupolosissima e completissima, confezione che contiene un digipack al solito curato oltre ogni dire con quella copertina di Federico Pazzi Andreoli che anticipa tematiche legate alla speranza e agli affetti, legati in primis alla famiglia, che costituiscono una ricchezza inestimabile e troppo spesso trascurata. “I sogni sono il nostro passaporto per i viaggi più affascinanti, quelli fra il possibile e l’impossibile – sostengono i Nostri – La bacchetta magica che ci libera dal limite del corpo fisico”. Sogni notturni, incisivi. “Belli, brutti, stravaganti, inquietanti. Rassicuranti o spaventosi – insiste la tesi marchigiana – ma indispensabili per capire meglio chi siamo”. Ma anche sogni a occhi aperti. “Per fuggire dalla realtà o vederne una diversa”.
Full of glow, brano di apertura scelto anche per accompagnare il suggestivo e azzeccato video animato (https://www.youtube.com/watch?v=pKAwSP82_rA&feature=youtu.be) realizzato dall’ex batterista della band, Francesco Zano Zanotti, pare un’outtake dei Velvet, suonata dai Green on red che ammiccano ai Flamin’ Groovies. Drammatico ma suggestivo esordio con la voce di Marco Diamantini che pare avvolgere l’ascoltare con la sua cadenza compassata, quasi da reading di poesia, per poi evolvere in uno sviluppo collettivo di rara intensità. La sezione ritmica composta da Alan Giannini (percussioni) e Andrea Giaro (basso) asseconda le esigenze con grande puntiglio e senza mai essere invasiva, lasciando impeto e oscurità al testo che evolve subito nella cadenza più controllata di Naked quando la ballata ‘danse macabre style’ sui generis usufruisce di un inquietante sottofondo di tastiere che aggiunge pathos ai lancinanti assolo di Michele Diamantini.
La successiva The wise man’s finger spinge il pedale verso una misurata incursione psichedelica che profuma di wha wha e tiene basso il ritmo quasi fosse un’esplorazione dell’inconscio che, anche qui, nulla ha di artificiale e/o artificioso ma solo di creativo. Marco, orgogliosamente, preferisce evitare confronti e abbinamenti, ma Pieces of disquiet pare portare il viaggio dal sogno all’incubo e dai corridoi di una casa polverosa fin dentro i cunicoli di una catacomba: passaggio tanto inquietante quanto suggestivo che genera angosciosa inquietudine con il suo ritmo ripetitivo e le rasoiate di chitarra tra le quali il frontman (l’ho già detto che di voci espressive e incisive come la sua, in Italia, ce ne saranno una decina al massimo?) dribbla i fendenti come Massimo Palanca faceva con i pestoni dei ben più imponenti avversari. Bad crumbs and pats on the back costituisce invece uno dei passaggi più classicamente rock, lanciato da un organo quasi liturgico e da un’aurea quasi morriconiana.
Il giro di boa conduce al brano più corto del lavoro, Cradling my mind (3’06”), passaggio degno di una potenziale opera cantautorale del leader, mentre For the brave riporta in auge l’organo e i ritmi più sostenuti di chiara ispirazione Seventies (i Chesterfield Kings, remember?). I wish I were the rainbow regala, dal canto suo, uno squarcio di speranza e di cielo azzurro con un tema che anche il fu David Bowie avrebbe apprezzato e Ian Hunter, probabilmente, voluto incidere. Reflection avvia l’ascoltatore verso l’epilogo con grande garbo, mentre si avvertono reconditi affetti persino per Robert Plant e addirittura inedite sfumature prog (tra una rarefatta While my guitar gently weeps e La carrozza di Hans poco orchestrata), lasciando alla title track il compito di chiudere punto, gioco, set, partita e trilogia con il pezzo più lungo (7’15”) capace di partire come una ninna nanna soffusa e ovattata per poi evolvere in una classica ‘ballata alla Cheap Wine’ con le consuete intuizioni di Michele a regalare guizzi e inedite speranze prima della chiusura. Anche se quel tasto pigiato con ostinata oltranza, proprio sul finale, non fa presagire nulla di buono, purtroppo….
Questi, oggi più che mai, sono i Cheap Wine. Maturi, mai arroccati sul passato, evoluti, creativi e generosi. L’orgoglio dell’indipendenza e della meticolosa preparazione; un mondo senza mezzi termini, il loro, fondato sul talento e sul lavoro duro, sulla ricerca e sull’ostinazione. Pazzi furiosi o inguaribili sognatori: Cheap Wine, appunto.
Vogliate gradire!