L’oreficeria di Davide Viviani, artigiano dei versi

Secondo lavoro per il cantautore bresciano che si è progressivamente trasformato da abile chitarrista classico a cesellatore di testi ed elaboratore di raffinate atmosfere. Un album autoprodotto, essenziale e profondo che conduce in un mondo talvolta delicato e talvolta malinconico ma anche crudo e pittoresco

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Davide Viviani (foto Ilpiccolostudio)

La magia della parola. Quella che, probabilmente, troppo spesso ci è sfuggita in tutte le sue esaltanti potenzialità (causa limitate o non complete competenze linguistiche…) nei confronti di tanti e tanti capolavori giunti d’Oltreoceano nel corso dei lustri. Ebbene, album come questo di Davide Viviani servono proprio per ricongiungerci con l’ascolto attento e concentrato ‘anche’ dei testi: non solo attraverso il messaggio generico o le strofe più incisive, ovviamente, ma proprio con la poetica di un artista e il suo progetto complessivo. Che, sia come sia, non trascura affatto la musicalità pura e raffinata.

Questo bresciano, anagraficamente classe 1981, pare piuttosto un reduce dal Folkstudio. Con molto meno impegno militante, ma tanta sensibilità e un’ancor più massiccia cura della comunicazione verbale. Proiettato in avanti, ma senza polvere sulle spalle e scheletri negli armadi. Un ‘giovane vecchio’, forse. E chissà perché quella scelta grafica di togliere l’apostrofo sull’essenzialissima copertina (che così si presenta con il titolo LOREFICERIA…) che, oltre al doveroso nome dell’autore, d’altro ci regala solo i titoli degli otto brani e due mini posterini: uno con gli strumenti del mestiere di un artigiano specializzato che si rispetti, l’altro con i vari passaggi (addirittura numerati) che consentono di creare un piccolo gioiello.

La copertina dell’album

Chiara la similitudine tra le canzoni e i monili. Sia in termini di risultato finale (i brani paragonati a gemme incastonate, per esempio, su un anello o una collana), sia in termini di creatività, dedizione e perizia durante la certosina fase realizzativa. Non per tutti, dunque.

Viviani, intanto, ritorna a sei anni dal debutto con Un giorno il mio ombrello sarà tuo che lo aveva portato a girare in lungo e in largo per promuovere un album che necessitava solo di voce e chitarra classica. Nuovamente autoprodotto, anche l’attuale L’oreficeria (questa volta, invece, l’apostrofo c’è…) prosegue su binari similari e gode invece del supporto Alessandro ‘Asso’ Stefana (già con Vinicio Capossela, PJ Harvey e tanti altri, qui anche impegnato tra chitarra acustica, elettrica, basso, piano a muro, organo ed effettistica), nonché la collaborazione musicale di Marco Parente (batteria e percussioni). Un lavoro di certo non lunghissimo (poco oltre i trenta minuti con i suoi otto brani registrati, mixati e prodotti al Perpetuum Mobile, nonché masterizzati da Daniele Salodini al Woodpecker Mastering), ma che parte anche dall’intelligente scelta di evitare troppo facili riempitivi solo per allungare il brodo (brutta abitudine, oggidì piuttosto diffusa tra inutili ghost song ed evitabili scarti di lavorazione) e di puntare dichiaratamente all’ascolto concentrato del fruitore.

Davide Viviani (foto Ilpiccolostudio)

Nell’immedesimarsi nella figura dell’artigiano (in questo caso orafo, ma potremmo citare molteplici categorie similari e parimenti azzeccate), Viviani punta a trasferire l’immaginazione del pubblico dietro al banco di lavoro di un piccolo e nascosto laboratorio di periferia, magari in zona lacustre, da dove escono infine piccoli gioielli che brillanto soprattutto in fatto di originalità e manualità. Nulla di industriale e preconfezionato, dunque. Il Nostro tiene ovviamente per sé l’utilizzo della chitarra (classica, acustica ed elettrica) che alterna all’organo, mentre un cantato discreto e mai invadente accompagna i suoi testi autografi. Qualcosa che, forse, nel suo caso non richiede la perizia nell’utilizzo di microscopici strumenti da lavoro, ma che possono, altresì, consentire di portare sempre con sé, proprio come un orologio da taschino, il frutto di questa meticolosa dedizione che il tempo rende sempre più unica e rara.

Ne è indicativo biglietto da visita l’arpeggio iniziale che introduce a E a tutto quel mondo lì che ben presto evolve in un cantato garbato e classico per accompagnare una sorta di dedica sempre indecisa tra malinconia e dichiarazione d’amore. La successiva Agua, un po’ più ritmica, perde un pizzico di calore a vantaggio di una veloce spigolosità. L’acqua si trasforma in protagonista insieme al suo fluire, ma lascia spazio anche a significati aperti e diversi per ognuno di noi. La creatura banale riporta tutto sul piano dell’essenzialità tra parole scritte tutte d’un fiato, senza particolari progettualità. Se non l’ennesimo richiamo agli ingranaggi da far incastrare con pazienza, un po’ come la pazienza e la gentilezza necessari a tenere in piedi le relazioni interpersonali.

Salomon David si affida invece al dialetto bresciano per tratteggiare il ritratto di un artista di strada gitano effettivamente incontrato da Viviani ad Avignone. Un brano strano e curioso, caratterizzato da una chitarra quasi texana ma circondata da spunti effettistica degni di un film di Jim Jarmush con John Lourie tra i protagonisti. Il vernacolo, prassi non certo abituale per Viviani, viene utilizzato come ulteriore strumento per raccontare meglio la veracità del singolare personaggio. Litania della città alta è invece una struggente ballata pianistica che crea un’atmosfera cupa e uggiosa ispirata da una gita a Bergamo Alta.

Davide Viviani (foto Ilpiccolostudio)

Nella colza prende un po’ a sorpresa con il suo andare da marcetta da fiera con tanto di organetto, grancassa da banda e nonsense espressivi che confondono, volutamente, un pochino. Lu porcu meu, brano più lungo del lavoro con i suoi 4’22” di durata, allarga il contesto a un’ipotetica festa di paese ma vista assai da lontano. Probabilmente ispirata da un’esperienza diretta vissuta a Palmariggi (Otranto) tra chitarre crude, atmosfere amare e personaggi caricaturati. L’album si chiude con Leashed e i suoi 2’52” (a sua volta, la tappa più breve del viaggio) che passa all’inglese e si affida a una poesia dell’amica Valentina Gosetti alla quale viene reso omaggio in maniera sofferta, essenziale e senza troppe costruzioni pindariche, ma affidandosi anche ad alcuni e probabili ascolti di un troppo dimenticato cantautorato di brughiera alla Nick Drake. Un saluto discreto e malinconico, azzeccato e onestamente sincero.

Vogliate gradire!

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