Suburbicon. George Clooney racconta il boom degli anni ’50

Il sogno americano degli anni Cinquanta è un incubo razzista. Disperato ma non serio. Un po' Coen, un po' Clooney

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Suburbicon
di George Clooney
con Matt Damon, Julianne Moore, Noah Jupe, Glenn Fleshler, Alex Hassell, Gary Basaraba
Voto 7 meno

Suburbicon è il nome (tra il pretenzioso e il buffone) di un villaggio ideale dei suburbi per la buona piccola borghesia americana del boom fine anni Cinquanta: villette monofamiliari, comunità selezionata, supermarket, giardinette, banche, chiesa, polizia, pompieri. Per intenderci, quelle specie di comunità di plastica dove Tim Burton ha ambientato Edward Mani di forbice. Unico neo in questa immagine marketing: arriva una famiglia borghese nera e il bambino del manager Matt Damon, che vive lì con moglie bionda su sedia a rotelle e la sua gemella bruna (ambedue interpretate da Julianne Moore), gioca con il ragazzino nero. Nella notte due tipi da iconografia sudista del linciaggio s’infiltrano nella villetta di Damon, narcotizzano tutti e la signora paralizzata muore.
A sangue freddo di Capote s’incrocia con il melò alla Douglas Sirk. Ma, visto che è una vecchia sceneggiatura dei terribili fratelli Coen, s’incrocia anche con le polizze e i piani criminali di La fiamma del peccato di Billy Wilder. Cinema che gioca col cinema. Presto capiremo che sì, la comunità è molto razzista, ma il vedovo Matt Damon, forse per passione d’amore, è un terribile delinquente.
Il problema è che il crimine, nel cinema dei Coen, va a braccetto con la stupidità, e di solito il mix funziona (se i Coen stanno anche dietro la regia…). Clooney, regista bravo, anche sperimentatore, ma più “classico”,  da tempo accarezzava questa sceneggiatura, però ci ha aggiunto una sua malinconia intellettuale che quando esagera sfiora una miscela splatter meno sarcastica e più meditabonda. il bilancio è tremendo, anche se non serio, ma ancora politico: è una denuncia. I Coen di solito vanno altrove, tra il demenziale e l’ineffabile…

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