Ottobre 1988. Incontro con Keith Richards in una saletta riservata dell’Hotel Hassler di Roma. Il mitico chitarrista degli Stones arriva intorno a mezzogiorno. Ha il famoso anello col teschio, una pesante catena d’argento al collo e un ghigno satanico stampato sul volto. Noto che sul tavolo c’è una bottiglia di Jack Daniel’s.
Intervista a tutto tondo: il punto di partenza è Talk is cheap, il suo primo album solista appena uscito. Poi Keith cita il verso di una vecchia canzone di Jerry Lee Lewis: «Prenderò il sentiero di sinistra e arriverò in paradiso mostrando a tutti gli altri che cosa devono fare». Usa un linguaggio piuttosto colorito e sottolinea quel che dice con gesti eloquenti, spesso più importanti delle parole. Ne ha per tutti: «Cosa penso dei dischi da solista di Mick Jagger? Semplicemente non penso!». «Terence Trent d’Arby è un ragazzo carino, con un look ben studiato, una bella voce. Ma è sufficiente?». «Prince mi piace, però è troppo piccolo. Mi sembra una scimmia, un personaggio alla Pee-wee Herman».
Dopo circa 40 minuti mi dicono che il tempo a mia disposizione è finito. Mi alzo e saluto. Prima di uscire l’occhio cade un’altra volta sulla bottiglia di Jack Daniel’s: poco dopo mezzogiorno era sigillata. All’una meno un quarto è quasi vuota. Lo giuro: io non ne ho bevuto nemmeno un goccio e in quella saletta oltre a noi due non c’era nessuno…