BlacKkKlansman (Piazza Grande) ha graficamente al centro del titolo 3 K, come il Ku Klux Klan, è una storia vera, è una storia politica (alla Spike Lee) e persino una storia che sarebbe piaciuta ai fratelli Coen per i suoi risvolti grotteschi e disperati: ovvero come un giovane agente di polizia nero, fresco di arruolamento e con la vocazione al rischio (era stato mandato a un raduno del Black Panther Party per sorvegliare i discorsi di Stokely Carmichael negli anni Settanta) riuscì a infiltrarsi nel KKK (la peggiore organizzazione razzista bianca) con un’idea geniale: si iscrisse telefonicamente all’Organizzazione degli incappucciati, continuò a raccogliere indizi grazie alle sue doti di hacker telefonico antelitteram e alla vanagloria ottusa del Grande Dragone per la Supremazia Bianca e mandò fisicamente a contattare (e convincere) i capetti della manovalanza razzista un collega bianco che tra l’altro era pure ebreo (con tutti i rischi del caso). Due uomini sotto un solo nome. L’ironia della storia, dove si possono incontrare tutte le varianti sudate del razzismo sudista come il cinema ce le ha mostrate (a partire persino dalla storia del cinema: la glorificazione del KKK in Nascita di una nazione di Griffith) viaggia in maniera inquietante in parallelo con la pericolosità: i razzisti sono forse un po’ grotteschi, ma non per questo meno letali. E non è detto che una volta che li hai smascherati e temporaneamente disarmati, non ti ritrovi alle prese con strani silenzi governativi. Come ogni film di Spike Lee la parte militante rischia di incrinare la compattezza della parte artistica. Però il problema è urgente e presente e forse per questo BlacKkKlansman è stato già insignito del Gran Premio della Giuria a Cannes. Il giovane infiltrato è il figlio di Denzel Washington.
Locarno 71. BlaKkKlansman
Come fa un agente nero a infiltrarsi in un’organizzazione suprematista bianca