Roma è il ritorno in concorso di Alfonso Cuarón, che vorremmo ribattezzare Pier Paolo Federico (e anche Raffaello) Cuarón in omaggio a Roma (all’Italia, ma Roma è il nome di un quartiere di Città del Messico) a Pasolini, a Fellini e anche a Matarazzo per lo strano andamento che è riuscito a dare a tre vicende parallele nel suo film. In apparenza in primo piano c’è la storia di una servetta che viene messa incinta da un fidanzato sottoproletario che sembra credersi un emulo di Bruce Lee. In secondo piano (ma l’intreccio è fitto) la vicenda della famiglia borghese con tanti bambini che la servetta accudisce con amore, e dove il capofamiglia un bel giorno se ne va con l’amante e lascia la moglie e i figli nella grande casa dove un cane fa molta cacca e un’auto americana fatica a essere parcheggiata per le sue dimensioni assurde. Ma il terzo piano, in un bianco e nero che dev’essere un colore elettronico desaturato, c’è il Messico degli Anni 70 e sullo sfondo la rivolta degli studenti che viene sfiancata con interventi armati di squadracce fasciste a cui scopriamo appartiene il fidanzato manesco della servetta. I tre piani scorrono anche fisicamente: non c’è una ripresa ferma, tutto si muove da destra a sinistra e da sinistra a destra in lenti diorami che raccontano le strade, la gente, i vestiti, le canzoni, i mestieri, il traffico e persino la routine di una sala parto con affetto e arte.
Venezia 75. Roma
Due donne, una famiglia, una nazione in un diorama in movimento del Messico degli anni Settanta