Un power trio senza chitarra, quindi solo batteria-basso-tastiere. Certo che si può, ma come pretendere di ottenere un risultato così potentemente rock? Ci hanno creduto Gigi Cavalli Cocchi (batteria) e Alex Carpani (tastiere, testi e voce) che hanno lavorato alla creazione di un suono personalissimo. A loro si è aggiunto il bassista Jacopo Rossi e insieme hanno confezionato il progetto discografico e live Aerostation. Già dalla copertina, ad opera di Gigi Cavalli Cocchi che ha curato le copertine per Ligabue e altri, ci si addentra in un mondo spaziale, che attinge dal passato per individuare percorsi futuribili. C’è ruggine sulle lamiere attorno all’oblò da dove l’astronauta scruta un panorama di grattacieli. C’è il simbolismo rappresentato da quattro triangoli, schizzi di missioni spaziali ma anche aerostati del passato. Una copertina che stimola l’idea di un viaggio, ben diverso da quello tracciato dai tedeschi Tangerine Dream e Popol Vuh. Gli Aerostation scelgono per il loro viaggio un suono corposo e potente, del resto i trascorsi dei due artisti è molto intenso e ricco di collaborazioni.
Gigi Cavalli Cocchi, quale percorso prima di arrivare qui?
Brevemente, nell’89 inizio la collaborazione con Luciano Ligabue, nell’interminabile Neverending Tour e con lui sono in studio di registrazione per quattro album, da Ligabue (1990) a A che ora è la fine del mondo (1994). A seguire, in un paio d’anni incido due album con i ClanDestino, quindi mi aggrego ai CSI suonando live e registrando vari album, tra cui Tabula rasa elettrificata. La storia si fa lunga già solo a citare i vari progetti, dai Souldrivers ai Mangala Vallis, in omaggio alla musica rock progressiva con l’album The Book of Dreams. Poi la partecipazione ai vari megaconcerti di Campovolo con Ligabue, le collaborazioni con numerosi artisti per progetti collaterali e l’incontro con Alex Carpani.
Alex, come avviene questo incontro che dà origine a Aerostation.
Diciamo che lo stile Prog ha favorito il nostro incontro. Ho chiamato Gigi a collaborare alla batteria all’album Waterline, dove la copertina era curata nientemeno che da Paul Whitehead. Ci conosciamo da almeno dieci anni e adesso è arrivato il momento di concretizzare alcune idee che ci accomunano. Un progetto che dal mio punto di vista ci spinge già oltre lo stile Prog da cui entrambi abbiamo attinto. Io poi ho avuto la fortuna di conoscere Keith Emerson quando avevo ancora sette anni. I miei genitori gestivano una scuola collegio in Svizzera e ci veniva il figlio di Emerson. Ricordo che al pomeriggio capitava che andassi a casa sua a giocare, ma avendo visto qualche filmato dove Emerson conficcava coltelli tra i tasti delle tastiere, avevo un certo timore sapendo che era lì a casa con noi. Un giorno ricordo che mi assalì una certa inquietudine e chiesi di essere riaccompagnato a casa. Già da bambino il genere Prog mi è arrivato addosso. Mi sono poi interessato di musicologia e dopo un primo lavoro da solista nel 1993 è arrivato Waterline che, in una versione demo, era stato ascoltato da Aldo Tagliapietra de Le Orme il quale mi ha indirizzato a un’etichetta californiana per la realizzazione su disco.
Ancora Alex, entriamo più nei dettagli di questo vostro album, dicevi che non va catalogato nel genere Prog, quindi?
Dopo l’uscita del mio album So close So far del 2016 sentivo l’esigenza di un rinnovamento. Con Gigi ci accomuna la forza d’animo, siamo due corazzate, curiamo tutto noi nella realizzazione del disco. Certo c’è un’affinità artistica e caratteriale che ci favorisce, come pure un’affinità musicale nella condivisione delle scelte artistiche. Dicevo che il progetto Aerostation non può essere definito Prog, certo lo contempla, ma non siamo legati come schema a nessuna etichetta rock. Abbiamo ricavato un sound contemporaneo e cosmopolita, volutamente internazionale, dove la voce è in mezzo agli strumenti, è un rock frontale e diretto, con melodie che catturano, con ritornelli incisivi. La sfida era quella di avvicinarsi alla forma canzone rimanendo nel rock. Non è poi nostra intenzione rinnegare le influenze che pescano anche dal prog, nel mio caso anche dall’elettronica. Non trovi la chitarra, ma nemmeno il suono di un moog, del mellotron e dell’hammond, giusto per uscire da certi schemi legati a un certo periodo, come anche non c’è il pianoforte. Abbiamo lavorato molto sulla creazione di un’identità sonora personalissima, per creare un sound particolare che fosse il nostro tratto caratteristico e distintivo. Lo avverti da subito nel nostro primo singolo Straight to the Sun.
Gigi, in conclusione, come si traduce dal vivo il vostro progetto. Avete già fatto concerti?
Il concerto è la chiusura del triangolo, il simbolo che accompagna le varie immagini di copertina. Avvertiamo l’urgenza di un ritorno del lavoro che abbiamo fatto e quindi un confronto con il pubblico è necessario. Abbiamo partecipato a un paio di Festival, uno a Marsiglia e uno in Québec dove trovi anche un pubblico giovane. In effetti le vecchie generazioni restano legate ai canoni della musica dei Settanta, con i classici assoli dei vari strumenti, noi li evitiamo. In queste occasioni abbiamo fatto delle registrazioni video che presto inseriremo in rete, probabilmente in un canale you tube. Diciamo che il nostro percorso può essere associato a quello che ha fatto Steven Wilson, prima nei Porcupine Tree dove esprimeva amore per il progressive rock, per poi intraprendere una strada del tutto personale, senza confini, come anche noi stiamo facendo. Se facciamo cover? Si, ma inaspettate, per esempio Crazy di Seal e un brano dei Cure, dove applichiamo la nostra impronta rock.