Gaber, l’uomo che ci guardava dentro

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Giorgio Gaber

Giorgio Gaber apparteneva a quella strana e rara razza di persone che sanno farsi apprezzare e che ti inducono al pensiero nonostante la loro evidente scomodità. Era divertente Gaber, ma anche cinico e sprezzante verso un mondo circostante che amava ma che dileggiava e colpiva come un figlio bastardo.
Solitario e distaccato come chi aveva dovuto prima di tutto preoccuparsi del proprio fisico e poi dei rapporti col resto del mondo, Gaber era un intelligente acuto e sgradevole grillo parlante che aveva trovato una interessante chiave di lettura della vita e un modo efficace di proporla alle folle.
Non era etichettabile: troppo anarchico, borghese, qualunquista, impegnato, libertario per finire a ingrossare le fila di qualunque partito o di qualunque ideologia. Certo era un progressista di sinistra, con infinite contraddizioni, una moglie diventata attivista berlusconiana , e per nulla certo che la definizione corrispondesse a ciò che la realtà delle persone proponeva nei fatti.
La moglie Ombretta Colli fu eletta a Milano. «Mi è toccato votarla, io che non ho mai votato prima, e ho finito per votare Berlusconi!», disse ridendo Gaber ai giornalisti che aveva voluto incontrare un’ultima volta approfittando di una visita negli uffici della figlia Dalia.
In tempi di totale confusione alla fine dell’era del ’68, e della caduta delle ideologie, Norberto Bobbio aveva cercato con un suo pamphlet di definire le certezze che ancora potevano sussistere nel definire destra e sinistra. Gaber aveva invece rimesso in discussione con sarcasmo tutti i dubbi in una sua canzone.
Figlio di triestini, cresciuto a Milano, Gaber arriva dal tempo di prima delle mode, quando ancora Mina ospitava vera musica in tv e Nanni Ricordi andava a caccia di quelli che poi sarebbero diventati i primi cantautori. Gaber arrivò alla canzone prima di De André e prima dei Beatles. Per scherzo. Anzi, per terapia. Si ritrovò con Jannacci e Celentano in uno strano mondo in cui Ornella Vanoni cantava canzoni della mala, e Gino Paoli era convinto a fatica e da tasche al verde a trasformarsi da pittore in autore di canzoni.
Gaber giocò con la canzone, scrisse di strani personaggi milanesi, pasteggiò a barbera e champagne, poi disse basta e cominciò a parlare alla gente attraverso una nuova forma di show che chiamò teatro-canzone. La gente ascoltava la musica? Si poteva usare la musica per portare idee, immagini, poesia, messaggi, comunicare. E farlo attraverso il teatro, in teatro. Cominciò a parlare di politici-colitici, di uomini che perdono i pezzi, di giovani signore fatue che ai problemi della società replicavano facendosi uno shampoo. Gridò contro le grida di Pannella e contro Dio, inveì contro i ricchi borghesi con la loro complicità, si fermò a Mestre a dialogare con i contestatori negli anni caldi e plumbei, e l’ironia mista a sarcasmo delle sue canzoni e dei suoi monologhi si fece sempre più cupa e grigia finché non si inventò il grigio, topone virtuale che popolò uno dei suoi più recenti e plumbei spettacoli carichi di solitudine e di disperazione.
Qualcuno lo definì snob. Probabilmente specchiandocisi. Ma il Signor G. era l’uomo comune che subisce ma non si rassegna e attacca con l’arma dell’ironia, non i pernacchioni alla Totò ma la perfetta messa a fuoco delle contraddizioni e del ridicolo dei potenti e dei normali. Pensiero e partecipazione. Mai disimpegno. In fondo c’era questo alla base del suo lanciare strali e graffiare. Essere consapevoli di sé e di ciò che ci riguarda. Per questo rinunciò alla televisione e in tempi più recenti, dominati dall’immagine e dalla velocità, si dichiarò sconfitto.

@ Foto di Renzo Chiesa

Non fu sempre simpatico, fu spesso contraddittorio. La sua esperienza veneziana, come direttore artistico del Goldoni – primo incarico istituzionale di un attore sostanzialmente anarchico – lasciò strascichi e polemiche incrociate. Lui non amava la burocrazia e il disamore dell’ambiente, l’ambiente lo accusò di curare prima di tutti i propri interessi. Mise in piedi una splendida versione di Aspettando Godot di Beckett, con Jannacci e Paolo Rossi. Ma si lamentò che le prove la sera erano spesso interrotte dalle maestranze che non volevano superare l’orario sindacale. “Una volta – mi raccontò – ci spensero proprio la luce”. Fu un rapporto di odio-amore che lasciò però rimpianti in entrambe le parti.
Fu comunque uno dei pochi che in quarant’anni, continuò a osservare le cose e a dire liberamente quello che pensava, frutto del connubio e del continuo dibattere con Sandro Luporini, che firmava i testi. Si poteva essere d’accordo o no. Ma comunque la sua visione del mondo era tale e veniva offerta e raccontata con tale acutezza e partecipazione che ti stimolava comunque a porti delle domande. E quindi a essere comunque più libero. Si guardava dentro, ti guardava dentro.
Dopo aver dichiarato che La mia generazione ha perso, ha perso soprattutto autonomia di pensiero, curiosità, voglia di partecipazione, spessore intellettuale, culturale, Gaber lasciò in eredità un ultimo pensiero caustico: Io non mi sento italiano, un testamento ideologico sotto forma di disco che uscì postumo il 24 gennaio 2003, tre settimane dopo la sua morte, raccontando in maniera cruda il suo totale disincanto per i piccoli uomini di un paese che in realtà amava profondamente. Lui non aveva avuto voglia di aspettare le reazioni e se n’era andato prima, per sempre.
Ricordo che andai a cercare l’ultima parola dell’ultima canzone di quest’ultimo disco. Era: UOMO. Sorrisi. Era davvero la sintesi del mondo gaberiano, che si chiudeva così, come un cerchio.

Giò Alajmo

(c) 24 gennaio 2019

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