La casa di Jack

Ennesimo film/saggio/installazione di Lars Von Trier: l'assassinio può essere arte? All'inferno la risposta

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La casa di Jack
di Lars von Trier
con Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan, Sofie Gråbøl, Riley Keough

Voto: è Von Trier

Il serial killer Matt Dillon dialoga con una voce nel buio, la voce si chiama Verge (Bruno Ganz), è Virgilio: chi ha letto Dante intuisce che si scende all’Inferno. Chi non lo capisce dal dialogo lo capirà dalle immagini. Ma le immagini, alla maniera di Von Trier sono sempre controverse: ruvide come il Dogma (il suo manifesto per un cinema di regole ascetiche), documentaristiche, insopportabili, oppure deturnate, sfottute, oppure cristallizzate, da videoarte ipernitida e iperrallentata nella geografia dell’inferno. La vicenda è ambientata negli anni Settanta, in un’America rifatta in Nord Europa. L’uomo, ispirato  ai serial killer Jeffrey Dahmer, Tud Bundy, Richard Kulinski, ha ucciso tantissime persone ma ce ne racconta 5. Li chiama incidenti. È un ingegnere ma voleva essere un architetto (“l’ingegnere la musica la legge, ma l’architetto la suona”). Anche Hitler era un architetto frustrato.  Disegna ma continua ad abbattere una sua casa ideale. Fin da piccolo è un ossessivo compulsivo con tendenze sadiche che interpreta la sua impunità (sembra invisibile alla polizia) come una sorta di avallo divino. Maniaco della pulizia. Arido, spesso è più insostenibile la sua aridità che quello che fa. Un fallito psicopatico con evidenti segni di schizofrenia. A volte però buffo in maniera insostenibile, perché non sta bene ridere di fronte all’orrore.
Von Trier è ossessionato dalle regole: come Nimphomaniac anche questo film è diviso in capitoli e diversioni tra una voce che indaga e una che narra con derive in apparenza buffe o incongrue. L’idea di Jack è che la morte è una costruzione artistica e quindi lui alterna gli omicidi alle diversioni: frammenti di Glenn Gould che suona le variazioni Goldberg canticchiando, un quadro cubista di Juan Gris da sovrapporre a un viso demolito, quadri di William Blake, disegni per spiegare l’evoluzione ingegneristica delle cattedrali, animazioni, teoria della caccia al cervo, teoria dell’onda crescente decrescente che spinge a uccidere, della decomposizione attraverso la decomposizione dell’uva, aerei tedeschi come icone, architettura nazista come icona, massacri e dittatori come icone, la shoa, La barca di Dante di Delacroix ispirata a La zattera del Medusa di Gericault, i cadaveri che ricordano statue iperrealiste e installazioni da Biennale.
Von Trier provoca, dice tra le righe che usa se stesso per parlare del serial killer, o forse presenta un ritratto dell’artista come serial killer. Usa la sua depressione per una terapia in forma di trattato. Usa frammenti dei suoi film alla stessa stregua di materiale documentario. Usa persino le accuse che gli sono state rivolte di misoginia e di simpatia per il nazismo. La provocazione ottiene sempre il risultato che lui cerca: repulsione, espulsione, dolore e dolore vivisezionato. Per reazione lo si accusa di essere il suo personaggio.
Ciò che spaventa non è quello che si vede (molti film anche in tv hanno  più cadaveri, più violenza, più orrore gratuito) ma l’assenza di liberazione catartica. Qui non assisti a torture: assisti all’attesa.  E l’attesa  dell’orrore è più insostenibile della tortura. Se ironica e corrosiva, poi, la si rigetta come malata. Lo spettatore esercita il suo giudizio morale e vuole sottrarsi. Questo spiega il doppio esito del film a Cannes: spettatori che se ne vanno e spettatori che alla fine tributano standing ovation. Recensioni che parlano di psicoanalisi ed altre di pattumiera lanciata dietro la scia di una nave. Il problema è che in un mondo in cui anche in tv si insiste sulla spettacolarizzazione della morte è come se Von Trier ci dicesse che la vera pornografia è quella dei buoni sentimenti con cui si vende lo spettacolo di questa materia.
Il titolo viene dalla filastrocca The House That Jack Built , è una sommatoria tipo Alla fiera dell’Est (il corno della mucca, lanciato al cane che insegue il gatto che caccia il topo che ha mangiato il malto nella casa di Jack),  risale al seicento inglese, e il refrain, questa è la casa di Jack  serve a fare dell’ironia su qualcosa di costruito male. All’interno dell’universo di Von Trier è una citazione da L’elemento del crimine, il suo primo lungometraggio su un poliziotto che usa come metodo per inseguire un serial killer pensare come il serial killer. Era dell’82 come il primo libro di Harris su Hannibal The Cannibal…
Il cinema di Von Trier ormai è divisibile in trilogie.
La trilogia Europa è composta da L’elemento del crimine. Epidemic, Europa
La trilogia America da Dogville, Manderlay, Il grande capo
La trilogia della depressione da Antichrist, Melancholia, Nymphomaniac
C’è da chiedersi solo se La casa di Jack va aggiunta alla trilogia America o a quella della depressione.
Per chi vuole arrabbiarsi anche per la musica abbinata all’orrore oltre a Bach c’è Fame di David Bowie, ma quando Jack vuole essere didascalico usa i cartelli come Bob Dylan in  Subterranean Homesick Blues. 
Attenti alla scena del cric: Jack vuol dire cric. Von Trier ci sta dicendo che userà Jack come un  cric per tutto il film…

 

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