Dicono che all’americano medio bastino poche cose per essere felice: un bar pieno di gente, drink alcolici come se piovesse, qualche femmina da abbordare al bancone, un biliardo poco distante, una partita di baseball alla televisione (magari una serie come quella andata in scena di recente tra i Red Sox e i Mariners) e un disco dal vivo della Dave Matthews Band. Giusto per rallegrare ancora di più l’ambiente.
Da questo punto di vista il nostro amico immaginario dovrebbe andare sul sicuro visto che il dream team della Virginia di live album ne ha finora pubblicati qualcosa come ottantacinque. Niente di paragonabile ai Pearl Jam (l’altro monumento contemporaneo del suono a stelle e strisce), ma pur sempre un ennesimo paradigma del “troppo” che la DMB riesce ogni volta ed evocare.
Uno dei loro brani più celebri (mancato clamorosamente nella data di Milano), d’altronde, s’intitola Too Much e ironizza, su di una irresistibile base funky, sulle malsane abitudini del mondo occidentale, States in testa. “Mangio troppo. Bevo troppo. Voglio troppo. Troppo.”: il ritornello fa esattamente così. Ed anche lo show del Mediolanum Forum, terza e conclusiva data del mini-tour italiano della DMB, non è stato esente da questo mantra consumista. Perché Dave e soci, quando si esibiscono, danno tutto. Pure troppo.
La mail del promoter italiano, ricevuta di prima mattina, avverte di presentarsi sul luogo del concerto entro le ore 20 precise. Scrupolo inutile: è risaputo che la Band (allargatasi ormai a sette elementi e diventata inevitabilmente “altro” dopo la tragica scomparsa del sassofonista LeRoi Moore avvenuta ormai undici anni fa) cominci presto per potersi lanciare sia in set list voluminose che sempre diverse dalla sera precedente. Magari poi i brani si ripetono, ma è la sequenza a mutare e sono le jam, costanti e torrenziali, a dar loro nuova forma. Non siamo ad uno show dei Coldplay, insomma. Da queste parti il canovaccio pop non sanno neanche cosa sia.
Letta in quest’ottica, la Dave Matthews Band è davvero la “cosa” più importante che circoli nel rock made in USA da tanti anni a questa parte. Più significativa dei già citati Pearl Jam (troppo statici e nervosi nel riproporre il loro mito), più dei Phish (troppo sfuggenti), più dei Foo Fighters (troppo hard), più addirittura di Springsteen (troppo teatrale ultimamente). Insomma, siamo sempre ancorati al concetto del troppo.
Leggetela così: Matthews e company hanno sia il songwriting pragmatico (eccellente anche quello contenuto nell’ultimo Come Tomorrow, loro nono album uscito lo scorso giugno) che la fantasia sfrenata. I muscoli, tanti muscoli, ma anche la leggerezza di fregarsene. Loro, in pratica, suonano. Soavi. A cuor leggero. E tutto all’improvviso diventa il minuscolo palchetto di un locale. Anche se attorno a te vedi gli spalti (non gremitissimi, a dire la verità) di un enorme palasport. E poi tu stai in piedi nel parterre da un paio d’ore e loro, instancabili, vanno avanti come se avessero cominciato da una manciata di minuti. Troppo forti.
Guardiamoli e descriviamoli: Dave Matthews, ovviamente, è il leader. Un capo anomalo, a dircela tutta: fisico da benzinaio o da quello che ti consegna la pizza ai peperoni, è al contempo un vero prodigio artistico. Voce assurda (immaginatevi un misto tra Peter Gabriel e Eddie Vedder) quando percuote la sua acustica pare Paul Simon (e difatti in Warehouse, secondo brano in programma, spuntano subito ritmi africani e calypso) però è anche dannatamente tenebroso (la stupenda Gravedigger, eseguita in quel di Milano e tratta dal suo canzoniere solista) e funky nel senso più meticcio del termine.
Per tenere a bada uno così ci vuole una super mega band e difatti assieme al nativo di Johannesburg si muovono in sincrono l’allegria poliritmica di Carter Beauford (un batterista come pochi altri in circolazione), la coolness del bassista Stefan Lessard, una sezione fiati che sarebbe piaciuta al Miles Davis anni ’80 (vertiginoso il sax di Jeff Coffin; elegante la tromba dell’enorme Rashawn Ross, uno che pare uscito dalla linea difensiva dei New York Jets), una chitarra elettrica a metà tra la fusion e Hendrix (quella di Tim Reynolds, amico storico dello stesso Matthews) e le tastiere di Buddy Strong, musicista eccelso e carico di feeling che nella vita deve aver senz’altro ascoltato tonnellate di Jimmy Smith e Stevie Wonder. Cosa vuoi imputare a un combo del genere? Che gli piace spingere sul piano dell’improvvisazione? Che prediligono la sintassi jazz? Ok, ma non sarebbe come dire che a Madonna le piace provocare o a Cristiano Ronaldo restare in forma?
Uno, d’altronde, fa quello che si sente e il DNA della DMB (perdonatemi il bisticcio di sigle) è quello di ricordare al mondo che la grande musica americana è stata tante cose e non solo il rock dozzinale alla Bon Jovi che tanto piace a noi italiani. E tra le tante, troppe vanno citate la ballata crepuscolare che cresce e travolge l’anima – strepitose stasera sia Everyday che Samurai Cop (Oh Joy Begin) – ma anche la grande jam jazzata che ti riporta ai tempi gloriosi dei Chicago (una Jimi Thing interminabile e persa nel suo orgasmo di elettricità e fiati). Oppure il funk nero riletto con rispetto dai bianchi (le cover spettacolari di Sledgehammer e Fly Like an Eagle, rispettivamente di Peter Gabriel e della Steve Miller Band) e la confusione organizzata di Louisiana Bayou o dell’accoppiata Pantala Naga Pampa e Rapunzel che ci conducono al bis esplosivo di Lie in Our Graves (Reprise) e Ants Marching, eseguite praticamente in apnea. Le parole qui non rendono abbastanza. Certi tornado di note bisogna semplicemente gustarseli in diretta.
E poi – come ometterlo? – il pop di quella What Would You Say, suonata in apertura e scartata veloce come una caramella golosa. A ricordarci che proprio venticinque anni fa, nel 1994 e con la pubblicazione su major dello stupendo Under the Table and Dreaming, cominciò questa bella storia yankee ben lungi da terminare. Anche perché la Dave Matthews Band, compattata in questa maniera, non può terminare. Sarebbe un divorzio troppo doloroso. Sarebbe come se gli Stati Uniti dovessero nuovamente dire addio ai loro Grateful Dead. Lo hanno già fatto una volta e, credetemi, non è stato uno scherzo.
E poi nel caso degli autori di Crash c’è meno Woodstock nelle loro vene, ma più energia propositiva. Quell’energia sana che scorreva negli anni ’90. Quando anche uno sconosciuto barista della Virginia ma originario del Sud Africa, con la stempiatura vistosa e la barba ispida di una settimana, poteva farsi avvolgere da un sogno proibito: trasferire la sua musica negli stadi. Aprire un gigantesco american sports bar al Central Park di New York, riempirlo di una folla immensa e andare avanti a suonare tutta la notte.
La scaletta di Dave Matthew Band live@Mediolanum Forum, 3 aprile 2013
1) What Would You Say
2) Warehouse
3) Do You Remember
4) Seven
5) Everyday
6) Lover Lay Down
7) Dancing Nancies
8) Samurai Cop (Oh Joy Begin)
9) Sledgehammer (cover di Peter Gabriel)
10) Here on Out
11) Jimi Thing
12) Fly Like an Eagle (cover di Steve Miller Band)
13) Louisiana Bayou
14) You & Me
15) Lying in the Hands of God (con estratto da American Baby Intro)
16) She
17) Gravedigger (canzone solista di Dave Matthews)
18) Lie in Our Graves
19) Pantala Naga Pampa
20) Rapunzel
Bis:
21) Lie in Our Graves (Reprise)
22) Ants Marching
Ho visto 18 concerti della DMB, più o meno metà in USA e metà in Europa.
Posso permettermi di dire che questo è uno dei migliori pezzi che ho mai letto qui in Italia.
Bravo, ben fatto. Qualche imprecisione, ma ininfluente nella sostanza