Chi volesse sapere per quale squisita, maledetta, schifosa ragione la pistola di Lou Reed è ancora carica, deve guardarsi per un attimo dentro.

E fare questo semplice ragionamento.

Semplice: Lou Reed ha trascinato l’arte ormai imbalsamata della metà del novecento, fuori dalle roccaforti imbellettate dei salotti bene e dei musei fino in strada. Di più, l’ha portata nei meandri più bassi della società più superficialmente avanzata e per questo prossima al tracollo. E più ancora, nei cessi pubblici e nei giardini dimenticati dove si scambiano prestazioni sessuali di fortuna in cambio di una dose di eroina.

Mentre buona parte dell’intellighenzia mondiale si trastulla su posizioni elitaristiche e la musica come il resto dell’arte assume una funzione esclusiva e vergognosamente rivolta a (onanisti) addetti ai lavori, compiendo così il distacco letale tra il significato e il significante, cioè tra l’opera e ciò che essa rappresenta, e mentre l’Europa torna a credersi reginetta di contenuti, nei recessi di un’America più disposta a fare i conti con la propria vulnerabilità, dunque in quegli ambienti in cui arte ed estremi dell’esistenza si toccano, una personalità arrogante e geniale come quella di Lou Reed compie il miracolo.

Quello di restituire all’arte una dimensione di verità storica, di urgenza e insieme di volo pindarico verso soluzioni nuove, spingendola a sorvolare le macerie intellettuali, morali e dogmatiche che la seconda guerra mondiale aveva disseminato ovunque.

Chi è il protagonista del racconto louridiano? 

Un giovane uomo disorientato, in bilico tra cultura mitteleuropea, tossicodipendenza o quantomeno (psico)farmacodipendenza, e una certa confusione rispetto al proprio orientamento sessuale.

Questa somma di caratteristiche che potremmo definire il trionfo dell’ambiguità, sono la chiave di volta non solo per comprendere la nuova direzione dell’arte sonora, e di slancio anche relativa a tutte le altre arti, ma anche per prevedere come avrebbe preso a comportarsi l’individuo che sarebbe presto stato esposto al salto del nuovo millennio verso un non si sa.

Il personaggio incarnato da Lou Reed oscilla tra il fascino perverso offerto dalla decadenza dei costumi del primo estenuato novecento europeo, e la nuova, bruciante e desolata quotidianità di chi non sa né più vuole integrarsi in alcuna categoria di conformismo.

Non intende schierarsi fessamente a favore di posizioni retoricamente antibelliche, ma poi nei fatti saldamente ancorate al sistema economico-finanziario rappresentato dalle multinazionali del disco.

Non intende lisciare il pelo alla società bene che accoglie per puro vezzo snob ogni stranezza proveniente dagli ambienti artistici, solo per esibirla come primato ideologico.

Dipende da sostanze di varia natura per sorreggere il proprio smarrimento, ma è lungi dal considerare tali sostanze come una scelta creativa, bensì come rimedio alla paura.

Arte, musica, eroina e sesso estremo sono gli strumenti attraverso i quali guardare al mondo.

Per quanto estraneo a noi possa apparirci, a ben guardare è il preciso identikit di ciò che cinquanta anni dopo sarebbe diventato l’uomo medio.

Mediamente colto, quanto basta per soffrire della propria vulnerabilità.

Affetto da crisi di panico.

Senza dio, poiché non esiste più.

Senza scienza, poiché è un nuovo dogma.

Senza futuro, poiché non si sa più quale possa essere.

   La rivoluzione louridiana, intima e profondamente iconoclasta, investe ampie fasce della musica d’avanguardia con un decennio circa di ritardo. In primis il punkrock, la cui estetica si sarebbe poi traslata in altri ambiti della comunicazione: la moda, il cinema, la fotografia, la letteratura, il fumetto, la televisione e la radio.

Se noi oggi disconosciamo la portata profetica di questa rivoluzione e del capovolgimento di visuale operato da quel giovane egocentrico, arrogante, insopportabilmente portato in musica e in letteratura ad un minimalismo che rimandava a una gigantesca riserva di contenuto, è solo perché i famosi 15 minuti di notorietà profetizzati allora da Wharol come meta futura dell’uomo qualunque, si sono tragicamente concretizzati.

E perché, semmai, siamo andati anche oltre: abbiamo finito per credere che ognuno di noi potesse trasformarsi davvero (in base a misteriose qualità) in un esempio per molti altri tanto quanto lo sono stati per noi coloro che realmente hanno incarnato esempi.

Al punto di crederci tutti musicisti imperdibili. Tutti fotografi di primissimo livello. Tutti protagonisti di ogni singolo fottuto ambito, e dimostrando di esserlo sì, ma unicamente del vuoto più assoluto che si è fatto largo dentro.

Perché oggi troppa parte della società mondiale è convinta che basti un telefono multifunzione e un canale su internet per ammorbare la rete di cose inutili, prive di significato proprio perché malate di una parossistica, compulsiva estemporaneità, la quale vanifica il gesto nell’istante stesso in cui esso si compie, e infettate di troppa vacua urgenza di attualizzazione di ogni segno, spinta sino al punto da nullificare il segno stesso.

Lo scenario del significato, per eccessiva sovrapposizione di segni, si avvia così ad essere uno specchio nero.

Dentro, però, siamo tutti quel ragazzo insopportabile di cinquanta anni fa, tutti diversamente eroinomani, poiché dipendenti da questa o quella cosa, questo o quel dispositivo, e incapaci di reggere in prima persona qualunque evento della vita se non sorretti da stampelle di ogni sorta, mediatiche e non.

Siamo ambigui.

Confusi.

Contraddittori.

Atei credenti.

Misogini che blaterano ipocritamente in favore di femmine delle quali non sanno accettare la parità di diritti.

Egocentrici patetici, illusi di risultare interessanti con le nostre idiozie masturbatorie per un pubblico agognato e immaginario, ovvero un prossimo di cui non ci importa proprio nient’altro se non di ottenerne i favori.

Incapaci soprattutto di accettare che anche a chi ci sta accanto o di fronte, non importa più niente di noi.

Lou Reed partendo da sé stesso metteva in musica come un monito l’incubo più atroce dell’umanità: il dissolvimento interiore dell’individuo.

In un disco del 1975, “Metal Machine Music”, prendendosi gioco tanto della compagnia discografica RCA quanto della critica, metteva su nastro circa sessanta minuti di rumore ininterrotto. Quale arrogante atto di pura trasgressione, un colossale vaffanculo a tutto e tutti, in un gesto artistico in cui egli aveva pure creduto.

Basterebbe anche solo questo esempio per renderci consapevoli di quanto siamo regrediti col tempo.

E ora che di Lou non ce ne sono più ma al loro posto abbiamo miriadi di specchi neri, fottiamoci.

O risaliamo la china scivolosa, se solo ne siamo capaci.

don’t you know, they ‘re gonna kill, kill you sons”.

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

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